C’è il volto gigantesco di Thierry Fremaux sugli schermi della Festa del cinema che incombe dietro a 5 direttori di festival italiani. Rappresentano alcuni dei più importanti del mondo, tutti in presenza tranne per l’appunto Fremaux, il cui collegamento Zoom è proiettato sullo schermo alle loro spalle e per questo gigante. È solo una questione di comodità per il pubblico, così che possa vederlo. Lo stesso è un’immagine che fa impressione.

L’idea di questo panel di direttori di festival (il primo di una serie con rappresentanti di alcuni dei settori più importanti dell’industria dai produttori, ai distributori fino a registi e venditori internazionali) è di fare il punto sul futuro del cinema italiano. Di fatto è anche un evento questo che sancisce un momento incredibile per la nostra industria, quello in cui a determinare la selezione di 3 dei primi 4 festival più importanti d’Europa ci sono degli italiani.

Alberto Barbera per Venezia, Carlo Chatrian per Berlino e Giona Nazzaro per Locarno. A loro si sono aggiunti ovviamente Paola Malanga, padrona di casa e direttrice di Roma, e il moderatore Gian Luca Farinelli che della Festa del cinema è presidente ma è anche uno degli animatori principali del Cinema ritrovato.

Il dialogo non è stato proprio tale, ognuno ha parlato per conto proprio per circa 5-6 minuti alla volta rispondendo alle tre domande di Farinelli. Solo alla fine ci sono state risposte e visioni diverse a confronto.

barbera incontro festa del cinema
Alberto Barbera

La programmazione

La prima domanda è stata: “Quanto nel fare la selezione dei vostri festival la vostra idea di cinema vi guida e quanto invece si deve piegare al cambiamento?” e l’onere di iniziare è stato dato a Fremaux, che ha parlato molto chiaramente di incarnare una certa “permanenza nell’idea cinema” proprio perché invece i cineasti mutano e non sono oggi quello che erano da giovani. La parte più interessante della sua risposta è stata tuttavia quella in cui ha sostenuto che “Hollywood manda meno buoni film rispetto ad una volta”. È stata una valutazione con cui Carlo Chatrian è stato subito d’accordo dicendo che “c’è un problema di creazione e Hollywood è meno forte, sta per essere sostituita da altri produttori e sente la presenza omologatrice del mercato nei prodotti indie”. In più ha aggiunto che secondo lui, che lavora in un festival con un forte mercato del film, l’unica maniera di trovare i film che parlano del presente è proprio scovare quelli che lavorano in opposizione dialettica con il mercato e non seguendolo: “Stare al passo con i tempi significa posizionarsi in opposizione alla norma cinematografica”.

Pure il terzo direttore a parlare, Giona Nazzaro ha concordato sul fatto che il cinema americano “pare aver accettato il suo volersi omologare ad un minimo comun denominatore”, aggiungendo che semmai è dall’Asia o dal sud globale che in questo momento viene la maggior propositività. La concordanza sulla crisi del cinema americano si è fermata quando ha parlato Alberto Barbera, che non ha menzionato quella questione ma si è semmai espresso sull’esigenza di dimenticare la propria idea di cinema quando si fa una selezione, perché tenerla presente sarebbe come indossare una camicia di forza: “Inevitabilmente la formazione stessa nostra cultura cinematografica è costruita intorno a pregiudizi (termine negativo solo in parte), dobbiamo abbandonare dunque quest’idea di cinema […] per essere il più possibile aperti alle novità che i film che abbiamo di fronte rappresentano, molti scombinano le nostre regole, ci sconcertano, mettono tutto in discussione e mettono in crisi la nostra capacità di lettura critica e di costruire dei percorsi”. Secondo Barbera inseguire la propria idea di cinema è un rischio perché potrebbe portare a perdere di vista l’essenziale: leggere il presente per anticipare il futuro.

Paola Malanga infine ha parlato della pluralità dei mercati, che sono tanti, e anche film piccoli ai margini di una proposta festivaliera hanno un loro mercato internazionale e una loro economia (oltre ad una ragion d’essere) che rende possibile la loro esistenza.

chatrian incontro direttori festival
Carlo Chatrian

Il cinema italiano degli ultimi 10 anni

La seconda domanda è stata “In questi ultimi 10 anni, come è cambiato il cinema italiano rispetto all’idea che potevate averne?”

Fremaux ha parlato di una terza via per il cinema italiano nata negli ultimi anni, cioè del fatto che storicamente i modelli erano due, quello moderno (di Antonioni e Fellini) e quello della commedia sociale. Invece i nuovi cineasti emersi dopo il 2000 hanno adottato tutti strade diverse. Chatrian ha ricordato come negli anni ‘90, quando lui era un frequentatore di festival, i film italiani erano pochi, mentre oggi non mancano mai: “Produttivamente abbiamo guardato fuori dai nostri confini con un linguaggio da co-produzione internazionale e registi che pensano in modo internazionale”. Nazzaro ha parlato di un cinema italiano molto vivo a fronte di qualsiasi crisi che c’è sempre stata, in grado di rielaborare quel che accade e allo stesso tempo di essere molto diversificato: “Basti pensare a Sollima che parla alla pari con un tipo di cinema che gli americani non fanno più o Mainetti che ha inventato una cosa nuova”. Ovviamente Nazzaro ha anche menzionato come nei suoi due anni a Locarno film italiani si siano imposti e abbiano vinto spaziando da quello di Comodin di quest’anno a Il legionario di Hleb Papou nel 2021.

Per Barbera l’ottimo periodo produttivo che il cinema italiano vive oggi è diretta conseguenza della crisi che invece ha vissuto negli anni ’90 “quando toccammo il fondo della difficoltà di esistere, sia in termini qualitativi che di rapporto con il pubblico, che di capacità di viaggiare fuori dai confini nazionali”. E tra i nuovi produttori e registi ha voluto citare anche Luca Guadagnino precisando che raramente viene citato tra i cineasti italiani “forse perché gira film internazionali se non alle volte con fondi americani come Challengers”. Barbera ha proprio parlato di elementi di vitalità del cinema italiano “enormi” di cui non ci accorgiamo molto e di cui invece forse si accorgono più gli stranieri, che vedono i nostri film ai festival. Questa vitalità sta nel doppio segno di “smarcarsi da certe tipologie narrative e semantiche tradizionali, nello stesso tempo proseguendo quel lavoro di ricerca e sperimentazione dai tempi del neorealismo che ha insegnato tanto a tutto il mondo”.

Paola Malanga, citando il periodo in cui ha lavorato a Rai Cinema, ha detto di aver assistito al cambiamento di percezione sul mercato del cinema italiano, aggiungendo che è “qualcosa che è accaduto, sta accadendo e se non ci sono interruzioni può andare avanti”.

nazzaro incontro direttori festival
Giona Nazzaro

Il futuro

L’ultima domanda ha riguardato il futuro: “Cosa serve all’industria del cinema italiano?”. La risposta è stata praticamente la stessa per tutti anche se declinata in modi differenti, ovvero ripristinare il rapporto del pubblico con la sala. Proprio perché tutti hanno dato la medesima risposta probabilmente questo è stato il punto su cui si è finalmente discusso, mostrando approcci e idee differenti.

Fremaux ha suggerito molto semplicemente di adottare leggi a protezione delle sale come avviene in Francia e in Corea; Chatrian ha enfatizzato l’importanza di smetterla di pensare il cinema italiano per il pubblico italiano e iniziare a pensarlo per il pubblico internazionale, aggiungendo che il problema della sala è comunitario, è un problema di non voler stare insieme in quella maniera. Lapidario invece Giona Nazzaro: “Al centro della sala c’è il cinema e al centro del cinema c’è la sala”. Secondo il direttore di Locarno non esiste cinema senza la sala, che ne è l’epicentro “i luoghi che non hanno cinema non hanno comunità e non è un caso che ogni governo autoritario o monocolore elimini il cinema, perché vuole evitare che le persone si incontrino e che si alimenti il pensiero critico e il dissenso”.

Barbera si è concentrato più sulla disaffezione del pubblico verso la sala e poi verso il cinema italiano, precisando che non sì può tornare indietro e che “sistemi di distribuzione diversi devono convivere, le piattaforme non sono passeggere e non possiamo pensare che le sale siano legate alla loro sconfitta, anche perché sono più forti e lo saranno di più in futuro”. Già nel presentare il programma di quest’anno Barbera aveva parlato di un eccesso di film italiani prodotti a fronte di una qualità media non eccelsa. È tornato sulla questione definendola un errore strategico perché allarga il fossato con il pubblico. La qualità è lo strumento per riconquistarlo secondo lui e questo passa da una riduzione della produzione anche se questo vuol dire far lavorare meno maestranze e meno professionisti: “Produrre 300 film l’anno vuol dire piena occupazione per tutti ma non vuol dire costruire positivamente un futuro per il cinema italiano”.

A questo punto Paola Malanga ha dissentito ricordando che la ragione della disaffezione della sala è la pandemia, perché prima la frequentazione delle sale non era certo così drammatica e tutt’ora non ne siamo davvero fuori dalla paura pandemica. A lei Alberto Barbera si è sentito di rispondere che tuttavia teatro e opera hanno già ritrovato il pubblico che avevano prima, mentre il cinema no, quindi deve esserci un problema specifico. E Paola Malanga ha chiuso sostenendo che il problema sia stata l’enfasi posta sul concetto di contenuto: “Se il contenuto è quel che conta allora questo si trova anche in piattaforma, ma il cinema è anche un’esperienza”.

A lei ha risposto ancora Giona Nazzaro, ricordando che in questa crisi ci sono strani elementi di discontinuità, cioè Nostalgia di Mario Martone che fa una gran prestazione, o Avatar, un film vecchio di dieci anni che batte molti contemporanei, e tutte quelle uscite fuori dai canoni che hanno incassato bene. Infine ha chiuso l’evento con una citazione da Ed Wood, Plan 9 From Outer Space per la precisione, che nel suo attacco dice: “Stasera parliamo del futuro perché è il luogo in cui tutti ci troveremo a vivere”.

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