Prima donna ad essere candidata all’Oscar nell’intera storia del premio e poi premiata alla carriera nel 2020 sempre dall’Academy, citata e ricitata, esibita nella t-shirt da Steven Soderbergh alla Mostra del cinema di Venezia e rifatta da Madonna in Travolti dal destino. Lina Wertmüller è stata decisamente più celebrata e considerata all’estero che in Italia dove invece è di fatto stata la prima vera regista femminista, proprio negli anni in cui quel tipo di sentire e di movimenti iniziavano ad affermarsi. In America i suoi film più barocchi (Pasqualino Settebellezze in cima a tutti) erano amati dal pubblico cinefilo e considerati a livello dei nomi maggiori del cinema italiano anno in ‘60 e ‘70. Da noi è molto diverso invece.

I film di Lina Wertmüller non sono considerati come quelli di Monicelli, Rossellini o De Sica, non sono trasmessi in televisione, se non molto raramente, non sono né popolari come Dino Risi né elitari come Antonioni. Nella percezione comune sono commedie stravaganti, molto legate al loro tempo e poco capaci di parlarci ancora del presente. Non ci sono registi, registe o sceneggiatori italiani oggi che dicono di ispirarsi a lei, non c’è nessuno che la ricordi o la citi. Eppure ha creato Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, ha fatto un cinema molto riconoscibile ed originale, pseudo-felliniano in certi momenti, leccatissimo in altri, ma dotato di umorismo suo e visione politica (molto semplice) suoi. E non è nemmeno una questione di memoria a corto raggio. Già a fine anni ‘70 Nanni Moretti in Io sono autarchico, nel periodo in cui feroce contro il cinema italiano attaccava Sordi, Manfredi e tutto quello che vedeva intorno a sé e non sopportava, si faceva venire la bava alla bocca al solo sentire dei successi internazionali di Lina Wertmüller.

melato giannini

cinemaTuttavia è stata forse la prima (sicuramente tra le prime) a lavorare sui grandi contrasti in chiave di commedia. A mettere esplicitamente e continuamente contro poveri e ricchi, industriali e proletari, destra e sinistra, elitari borghesi contro inclusivi popolani, per raccontare i mutamenti del paese. Non più quelli degli anni ‘60, cioè l’arrivo del benessere, ma quelli di costume degli anni ‘70. Cioè l’arrivo del femminismo. Le commedie di oggi, molto molto molto molto meno politiche delle sue, ma sempre fondate sull’accostamento di due estremi del paese come modo per raccontarlo attraverso l’attrito, lo scontro e la difficoltà a convivere, discendono da quelle lì, ne sono la versione annacquata e buona per tutti. Il suo modo di dirigere gli attori, così esagerato, innamorato dell’espressionismo a tutti i costi e carico di espressioni, colori ed esagerazioni è quello che ancora vediamo nel cinema commerciale.

Lina Wertmüller è stata la prima e probabilmente l’unica regista femminista militante di un certo rilievo all’interno del cinema italiano. La forza propulsiva del suo cinema è innegabile, un’esplosione. Tra il 1972 e il 1975 gira 5 film tra cui ci sono i suoi tre successi maggiori: Mimì metallurgico ferito nell’onore, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’Agosto e Pasqualino Settebellezze, che univa la rappresentazione degli stereotipi dell’italianità come la immaginano all’estero attraverso la lente del grottesco deformato, con la critica a quegli stereotipi attraverso l’olocausto (c’era davvero tutto per conquistare gli Americani!). In quell’industria maschilista e in quel clima per arrivare ad avere la libertà di fare film personali e originali aveva lavorato sia nel cinema che nella televisione in progetti commerciali riuscendo sempre ad imporre la propria visione, cioè a proporre figure femminili fuori dagli schemi.

pasqualino settebellezze

Prima era stata la regista dell’adattamento televisivo del Giornalino di Gianburrasca (con Rita Pavone nei panni di un bambino maschio) usando il suo vero nome, perché per uno sceneggiato era accettabile. Poi aveva diretto sempre Rita Pavone in un film che era un veicolo per lei, figura di ragazza ribelle e di certo non rispondente all’immagine che avevano le ragazze della televisione o della musica all’epoca, Rita la zanzara, usando uno pseudonimo maschile (George H. Brown). Solo il successo di quel film le diede la possibilità di firmare il sequel, Non stuzzicate la zanzara, con il suo vero nome. Erano già storie di ribellione, di famiglie patriarcali a cui si opponeva la giovane Rita con i suoi desideri di modernità e di musica.

Addirittura, a seguito di questi, ha anche co-diretto un western all’italiana di stampo femminista (di nuovo con uno pseudonimo maschile, Nathan Witch), Il mio corpo per un poker, che ha una trama che oggi potrebbe stare solo in un film di Tarantino: una donna che da giovane ha subito abusi da parte di uomini ora è una pistolera molto più abile di loro, pianifica ed esegue una rapina con un altro pistolero con cui ha una relazione da Wertmüller, fatta cioè di contrasti e battibecchi, lui verrà rapito, lei dovrà salvarlo.

il mio corpo per un poker

Dopo il 1975 scoperta la formula di successo i suoi film si fanno più ripetitivi, come è capitato a moltissimi autori italiani inizia a ripiegarsi sul proprio stile, a imitare se stessa e obbedire a schemi, formule e stereotipi che aveva inventato. Finisce in pochissimo la forza della sua novità e comincia la forza della ripetizione. Le idee politiche rimangono quelle, molto chiare. Purtroppo però anche le idee cinematografiche rimangono quelle. Di fatto nessuna più, dopo di lei, è stata capace e in grado di imporsi in quella maniera in un’industria fortemente maschile di raccontare quel tipo di storie con quel tipo di uomini e donne.

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