La serie di documentari targati Netflix I film della nostra infanzia ha una particolare predilezione per le litigate sui set, i problemi di produzione e i progetti che sembrano destinati a fallire. Ovvero quasi un sinonimo di tutto quello che è stato RoboCop fino alla sua prima proiezione pubblica. Il regista Paul Verhoeven dovette affrontate per mesi l’ostilità dell’attore Peter Weller, le ristrettezze di budget e soprattutto degli incredibili ritardi nella creazione del costume e dell’aspetto visivo del protagonista. Fu una battaglia continua, non solo nelle strade di Detroit.

Allo scrittore Edward Neumeier venne l’ispirazione l’assurda storia di un poliziotto ucciso dalle gang e riassemblato in un automa da un set d’eccellenza. Lui si occupava di revisionare sceneggiature e selezionare progetti da mettere in sviluppo. Nel tempo libero si recava sul set di Blade Runner nel reparto artistico della troupe. Osservando l’auto della polizia che decorava la città immaginata da Ridley Scott, si immaginò un robot che scendeva dal veicolo. Gli sembrò un’immagine così suggestiva da poter reggere una storia intera e si mise a scrivere di corsa un primo trattamento. Lo fece insieme a Michael Miner, che veniva dal cinema sperimentale.

Il primo script fece il giro di diverse case di produzione, fino a giungere sui tavoli della Orion. Loro si occupavano soprattutto di film “di qualità”, ma avevano nei listini anche successi sci-fi come Terminator. Opzionarono il film e presero come regista Verhoeven, autore con una spiccata sensibilità europea e reduce dal disastro di L’amore e il sangue. Il regista si rifiutò di dirigerlo dal momento che il film conteneva violenza, sangue, corruzione, tutto quello che odiava dell’America. Fu la moglie a convincerlo ad accettare, dopo avere letto per intero la sceneggiatura. 

Gli diedero così 7 milioni di budget, lo stesso di Terminator, che a fine corsa lievitò raddoppiandosi. Si mise alla ricerca al costume perfetto, che fosse un mix tra cibernetica e carnale umanità. Il primo a provarci fu Chris Wallace, noto soprattutto per avere curato le mostruosità de La mosca. Il risultato era troppo eccessivo, nelle interviste viene descritto come se qualcuno ci avesse vomitato sopra. Era assai poco attraente, insomma, e venne scartato.

Arruolarono quindi Rob Bottin (colui che diede forma a La Cosa). A sua volta chiese aiuto al concept Artist Miles Teves per realizzate un costume che richiamasse un’automobile. RoboCop era ambientato a Detroit, una città che in quegli anni stava vivendo un incredibile boom industriale soprattutto nel mercato dell’auto. Volevano fondere quindi l’estetica della città con una visione futuristica della stessa. 

In parallelo il reparto artistico lavorò anche sul droide della polizia ED 209. Doveva essere opposto a RoboCop, quindi senza sembianze umane, imponente e meno agile. Per crearlo chiamarono Phil Tippett che a sua volta, non gradendo la sceneggiatura, delegò il compito al suo collega designer Craig Hayes. Il design combina le forme delle vetture con quelle del mondo animale, una testa di orca su un’estetica militaresca ispirata a un carro armato e agli elicotteri. 

I due team che lavoravano sui due robot, non comunicavano tra di loro. Ma se quello di ED 209 lavorava velocemente, Rob Bottin aveva bisogno di sei mesi dalla scelta del protagonista per fare un costume su misura.

 

RoboCop

 

Arnold Schwarzenegger voleva la parte del protagonista, ma il costume sul suo imponente fisico non funzionava. Era troppo muscoloso ed eccessivo. Stabilirono allora delle linee guida per il casting: l’attore doveva essere magro, in ottima forma fisica e avere un bel mento e belle labbra. Dopo sette mesi di ricerca scelsero Peter Weller. 

Ma ancora il costume non era pronto. I primi modelli non convincevano, il casco sembrava un elmo greco-romano e aveva un petto troppo abbondante. La produzione si trasferì a Dallas per riprendere la Detroit del futuro (la città aveva nuovi quartieri dall’aspetto avanguardistico) e girarono tutte le scene senza RoboCop. Le finirono in poco, così aspettarono altre due settimane che Rob Bottin terminasse di disegnare il personaggio.

L’ispirazione per la forma definitiva venne da un libro dell’illustratore Sorayama dedicato a sexy robot giapponesi. Era molto più armonioso nelle forme e ben modellato con le parti umane. Ma la strada era ancora in salita. Per trasformarsi in RoboCop a Peter Weller servivano svariate ore, impedendo così un recupero del tempo perduto. 

Paul Verhoeven iniziò a irrigidirsi e a diventare ostile, percependo l’aumento del budget conseguente alla dilatazione dei tempi di lavorazione. L’attore inoltre non non riusciva a muoversi come voleva, ricoperto dalla scomoda “uniforme” che gli causava dolori e vesciche. Il regista non apprezzava la sua interpretazione e lo trattava duramente: ci furono attriti che causarono scintille tra i due, che a loro volta sfociarono in un incendio. 

Arrivarono a uno stallo con il protagonista che si rifiutava di seguire le direttive e di recitare le battute. La produzione iniziò così a cercare altri attori. Non appena girarono qualche inquadratura con il capo degli stuntman al posto di Peter Weller, quest’ultimo cambiò atteggiamento. Pace fatta tra i due, ma il clima sul set non cambiò. Ci fu una corsa forsennata a completare il film con diversi momenti di crisi e sfuriate del regista. Il montaggio finale inoltre risultava troppo cruento e furono costretti a tagliare qualche secondo per evitare il divieto più alto.

RoboCop fu però un successo, grazie anche alla forma del suo protagonista. Quel costume che aveva richiesto mesi interi di progettazione si rivelò sufficientemente iconico e funzionale da proiettare il poliziotto-automa e il film stesso nell’olimpo dell’immaginario popolare.

Fonte: Netflix

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