Di possibilità di redenzione Il ragazzo invisibile non ne ha neanche una, figurarsi il suo seguito, ancora più abbozzato e malmesso.  Ma al cinema nessun male vien per nuocere. Si può imparare tanto anche dai fallimenti, basta fare un lavoro di ingegneria inversa. Partire dagli errori, individuarli, e metterli in una sandbox da cui non vanno mai più tirati fuori. Il progetto di Gabriele Salvatores ha faticato molto a leggersi dentro, a capire i propri errori, e quindi a trovare una vera ragione d’essere. Non sarebbe arrivato un sequel ancora più sbagliato se non fosse stato così.

Non è detto però che non possiamo farlo noi, e non è detto che non l’abbiano fatto i registi e i produttori italiani che, fortunatamente, non ne hanno seguito la strada. È incredibile, ad esempio che solo un anno dopo sia uscito Lo chiamavano Jeeg Robot. Il caso opposto a Il ragazzo invisibile. Ovvero esattamente quello che si doveva fare per fare un cinecomic nostrano.

Va rilevato allo stesso modo il fatto che di supereroi il cinema italiano si è occupato ben poco negli anni successivi. Probabilmente per una lezione imparata che ha risparmiato tanti altri soldi buttati e tante altre frustrazioni. O per il trauma di un fallimento che ci ha messo tanto timore. È perciò utile ripassare, di tanto in tanto, tutti i Dont e i Be Careful che abbiamo imparato dal film per non commettere gli stessi errori. Si deve fare però riguardandolo, con pazienza, su Amazon Prime video.

Un po’ di umiltà

La prima cosa che il ragazzo invisibile non ha capito, è che i cinecomics non sono facili da fare! C’è stato un periodo in cui, in maniera totalmente ingiustificata, si annusava ovunque nell’aria una certa superiorità. Come se, senza dirlo esplicitamente, si guardasse al genere ben radicato nella produzione degli Stati Uniti come una cosa sciatta, senza sensibilità, una moda incomprensibili. E c’era tra gli autori quella (giusta) voglia di sfida. Una sorta di Davide contro Golia dove si credeva che noi avremmo sicuramente trionfato grazie alla nostra “sensibilità europea“. Così non è stato. Ovviamente.

Il motivo è che la barra di confronto, anche se non è facile da ammettere per il cinema degli autori, è straordinariamente alta. Il cinecomic ha avuto il tempo di nascere, crescere, maturare nella profondità del suo portato cinematografico. E solo lì noi abbiamo deciso di porgli la sfida. Quando era al suo apice.

La storia del Ragazzo invisibile comunica due cose opposte: la voglia di superare un modello di superomismo americano, muscoloso e adolescente, per ricondurlo alla sua originale destinazione per bambini. Vuole apparentemente distanziarsi, essere originale e personalissimo, ben localizzato in Italia, poi però si soffoca di citazioni, o meglio, emulazioni. 

Il film va però alla disperata ricerca di simboli (una scelta che ci sembra tipicamente americana) trovandoli in una maniera che flirta con la parodia. Recupera esattamente l’immaginario da cui vuole allontanarsi. La diversità degli X-Men raccontava, negli anni 70, un intero cambiamento emotivo e culturale nella popolazione. Le minoranze diventavano protagoniste. Rivedere il linguaggio di queste storie applicato a un pre adolescente che, semplicemente, si imbarazza e vuole sparire è quantomeno stridente. C’è pure un complotto, esperimenti segreti, una società nascosta senza fascino.

C’è tanto di Peter Parker nel protagonista, eppure Michele Silenzi sembra un bambino che non può esistere in nessuna parte del mondo. Fittamente ingenuo, fintamente intelligente, con sentimenti artificiali scritti da adulti che imitano quello che loro pensano sia il mondo emotivo dei più piccoli. Si prende in giro l’ossessione dei costumi e persino il simbolo di Batman diventa uno scarabocchio simile ad un emoticon. Sicuramente non fa ridere e contrariamente al suo tono parodico gli viene addirittura affidato un momento che sarebbe dovuto essere emozionante. Il culmine dell’origine di un eroe, la chiamata all’azione!

L’importanza di avere poche idee ma valide e ben chiare

Le storie di origini dei supereroi sono generalmente semplicissime. Semmai è il loro proseguimento a riempirsi di colpi di scena. Ne Il ragazzo invisibile invece si accumulano twist a non finire. La scoperta dell’adozione sarebbe potuta benissimo essere il colpo di scena del sequel. E invece Salvatores dirige un film sostanzialmente per bambini, ma lo complica più del necessario sperando di arrivare anche ai più grandi. 

Il ragazzo invisibile è invisibile

L’altra cosa che si può imparare da Il ragazzo invisibile e che la scenografia è parte del divertimento. Lo chiamavano Jeeg Robot usava Roma in una chiave fantastica, e pur mantenendo la sua concretezza. Qui invece lo sfondo di Trieste è sempre un passo indietro, secondario. Non si crede per un attimo che in quei posti possa accadere qualcosa di magico. Ad un certo punto un bambino dice: “anche noi abbiamo il nostro supereroe!” Ma prima di allora tutti si sono comportati come se non avessero mai visto uno. Infatti gli viene pure rimproverato che non esistono. Ancora peggio, quindi, la frase diventa una delle tante battute programmatiche che sembrano nate più dal reparto marketing che da quello di sceneggiatura. 

Il ragazzo invisibile vorrebbe essere un film per insegnanti

Perché il messaggio di un film didattico arrivi la storia deve essere almeno appassionante. È vero che i fumetti americani hanno sempre parlato di tanti temi vicini ai lettori, come il bullismo, la criminalità, il patriottismo, l’amore… Ma funziona perché la scala è totalmente sproporzionata. Perché c’è una scrittura sfumata e, nei casi migliori, perché hanno qualcosa da dire di nuovo (qui invece si ribadiscono concetti ben noti). Nelle storie di Stan Lee c’è l’adrenalina di un pericolo cosmico e l’aspetto più intimo, ad esempio, di un lavoro che va mantenuto per pagare l’affitto dopo che si sconfigge un semidio. Qui l’adrenalina è rifiutata, l’eccitazione dei superpoteri e della loro messa in scena rifiutata come una cosa volgare.

Il ragazzo invisibile parte così dalla sua metafora e non se ne distacca. Sembra perciò sempre piccolissimo. Anche quando si apre ad una storia su scala globale resta poco più che uno spot contro il bullismo. Avrebbe potuto essere per lo meno coinvolgente, se non avesse ricondotto ogni azione allo stereotipo della stessa. Michele, invisibile, guarda le ragazze nel modo in cui nessun adolescente farebbe mai. I bulli sono energumeni mai temibili e per forza con problemi in famiglia (!). Che abisso rispetto a uno Spider-Man in cui lo stereotipato Flash Thompson diventa un antipatico compagno di classe dal fisico non minaccioso, ma dal carattere pessimo.

Girato per essere proiettato nelle scuole, Il ragazzo invisibile si è preoccupato più di compiacere chi lo avrebbe adottato come strumento di dibattito che di essere intrattenimento per il suo primo pubblico. È perfetto per essere visto sulla LIM e per infliggere agli studenti una serie di domande retoriche con cui parlare dei problemi della classe e dell’adolescenza. Eppure è qui che commette il suo errore più grande.

Perché, pur non amando per nulla il genere da cui trae l’immaginario, cerca una nuova autenticità di sentimenti e di messa in scena. Si dimentica però di raccontare la vera generazione, i veri ragazzi che vorrebbero essere invisibili, e le vere difficoltà di crescere. Ne fa così un racconto molto consolatorio per gli adulti, incomprensibile per i giovani, invisibile per il cinema.

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