Kingsman – Secret Service non è un film di supereroi, ma poco ci manca. È tratto (molto liberamente) dal folle fumetto di Mark Miller e Dave Gibbons. Una faccenda di spie così tradizionale da prendere tutto il kitsch e l’esagerazione per farne un qualcosa di inedito. Nei comics, Secret Service non fece altro che rafforzare lo stile di Millar: grandi sequenze madri, dialoghi scarni ed esagerati, e un aspetto visivo appariscente tanto da farne un albo – storyboard. Niente però di particolarmente innovativo.

Al cinema invece Kingsman sembrò per qualche ora un qualcosa di nuovo e controcorrente. Mentre i supereroi si facevano sempre più oscuri, Matthew Vaughn andava dalla parte opposta. Niente dramma esistenziale, nessuna crisi dell’eroe che analizza le proprie azioni interrogandosi sulla ragione esistenziale. Qui c’è solo un ragazzo di strada, che ruba auto, picchia e viene picchiato, e sogna di andare a letto con le principesse. Vicino a lui un uomo perbene, che deve insegnargli le buone maniere e come salvare il mondo.

Va detto, per chi non avesse ancora visto il film, che in Kingsman – Secret Service c’è molto altro, ma è quasi accessorio a questo che è il suo cuore. C’è un’ agenzia segreta britannica che opera per il mantenimento della pace e degli equilibri globali. Hanno l’aspetto di gentiluomini in giacca e cravatta, si mimetizzano come persone di alto rango sociale nascondendosi dietro alla vetrina una sartoria, loro base operativa. Le scarpe Oxford, il doppiopetto, gli orologi di lusso non sono accessori di vanità, ma la divisa per entrare in azione. 

Una rivoluzione?

Eggsy Unwin (Taron Egerton) si ritrova di fronte a un bivio: passare la vita in cella o seguire Galahad, un “padrino” che l’ha osservato per tutta la vita da lontano, e arruolarsi nei Kingsman. Lui, che in qualsiasi altro film sarebbe stato il tipico pesce fuor d’acqua, è invece un pesce che, quando entra nel mare, fa uscire tutti gli altri. Perché la parte più irresistibile di Kingsman è l’incontro tra il mondo della strada e le procedure delle spie. Pur avendo infatti la grinta e l’anima da “fumettone” di supereroi, il film dice la sua rispetto a James Bond. E lo fa con sorprendente stizza!

Kingsman slide

Vaughn (ma anche Samuel L. Jackson, che è un grande appassionato di 007) recuperano in positivo tutta l’ingenuità che l’era Craig ha tolto al personaggio. Improbabile, ridicolo, fuori dal mondo e da ogni sospensione dell’incredulità, incurante di trasmettere un qualsiasi messaggio intellettuale, Kingsman è intrattenimento puro. Lo dichiara in apertura, e fa di tutto perché ce ne ricordiamo lungo le sue due ore. Soprattutto però si scaglia contro l’assioma che a una maggiore oscurità corrisponda una legittimazione “adulta” ad esistere come film. Invece no, dice Kingsman, basta con i piagnistei, qui siamo su una giostra – una gran bella giostra – e ce ne vantiamo!

Nel 2014 questo sembrava una rivoluzione. 6 anni dopo è un caso interessante di un gran prodotto di buon successo che però ha avuto tra gli epigoni solo i suoi sequel. Bond ha continuato ad essere serioso e tormentato, l’action in generale non ha mai recepito gli spunti dati. Eppure la battaglia fatta fu pienamente convincente. Perché non dice di mettere in secondo piano la qualità dell’azione, anzi, le sequenze di lotta sono coreografie benissimo (come quella della chiesa) e hanno tutte un pensiero estetico ben preciso che le mantiene sempre interessanti. Vuole invece che la spettacolarità e il divertimento siano consapevoli di quello che sono. Recuperino quindi una valenza puramente estetica e sensoriale, per tornare a veicolare adrenalina. E basta.

Kingsman – Secret Service è quindi una operazione puramente ritmica, che vuole sballottare in lungo e in largo: con citazioni, riferimenti meta e colpi di scena improvvisi. Risvolti di trama uno sopra l’altro di cui addirittura si può ridere (quanto è idiota il piano del mega cattivone?). Però, dicono i personaggi, i bei tempi erano proprio quelli in cui i villain erano sopra le righe, e i difensori del mondo non si dovevano preoccupare di altro che fare il loro mestiere.

L’animo tamarro di James Bond

La lunga sequenza dell’addestramento è di gran lunga la parte migliore. Una serie di prove per diventare praticamente gli 007 dei film. Sopravvivere ad un improvviso allagamento, lanciarsi da un aereo senza (apparentemente) un paracadute. Ma soprattutto, e qui c’è la trovata geniale del film, imparare a sedurre, a gustare e farsi dei drink di qualità.

Si palesa con il personaggio di Eggsy l’animo tamarro di James Bond. Le differenze sono poche. L’agente inglese seduce, il Kingsman fa sesso. Uno beve perché è raffinato, l’altro perché è abituato. E ancora, uno si butta nell’azione mascherandolo come suo dovere, Eggsy mena le mani perché è così che ha imparato a vivere e a far valere le sue ragioni. L’esito di questo incontro è esilarante, ed è molto simile a quello di un arguto What if? e se Fleming avesse scritto di un ragazzo povero, poco educato e incapace di controllarsi diventato gentiluomo e infine spia?

C’è dell’altro in Kingsman, ovvero la capacità di costruire un mondo senza mai rallentare la storia. Vaughn ha ben identificato ciò che piace maggiormente a Mark Millar: andare a costruire una realtà sotto la realtà, ma che è così esagerata da superarla e diventare surreale. Nella sua penna esiste spesso una società segreta che detta delle leggi globali. Queste danno giustificazione alle molte cose incontrollate che accadono: le grandi tragedie globali, le crisi economiche, l’avvento delle dittature… Nulla accade per caso. 

Un sistema di pesi e contrappesi regolato da quei gentiluomini che, come un bug nel Matrix, camminano anonimi nelle strade di Londra indossando abiti eleganti, ma scomodi e ingessati. Così distinti da essere indistinguibili. Intuendo questa idea narrativa, Kingsman riesce ad essere un film pienamente originale, coerente e riuscito. Senza ombra di dubbio il migliore adattamento dei fumetti del Millarworld. Peccato solo non sia riuscito a fare scuola.

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