Questo articolo fa parte della rubrica Rivisti oggi

La prima cosa che pensai nel 2004 quando vidi per la prima volta Mean Girls fu che, oltre a essere un film spassosissimo e con un gran ritmo, assomigliasse anche a un manuale di istruzioni, una sorta di documentario mascherato da commedia romantica adolescenziale utile da far vedere alle giovani ragazze (ma non solo) per aiutarle a orientarsi nel complicato mondo della socialità scolastica. Ovviamente il film era davvero tratto da un manuale di self-help, ed è per questo – e perché Tina Fey, che l’ha scritto, è un genio – che, pur raccontando una storia molto specifica, si finisce la visione con la sensazione di avere appena esperito, o ri-esperito se si ha una certa età, un intero ciclo scolastico condensato in poco più di un’ora e mezza.

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Mean Girls e Nietzsche

Il riassunto più efficace che si possa fare di Mean Girls è quella famosa citazione dal quarto capitolo di Al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche, che tradotta fa più o meno così: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Il film di Mark Waters è un’esplorazione dei lati più oscuri di quella particolare forma di sorellanza femminile che si forma durante gli anni del liceo, ed è la classica storia di un’outsider che ottiene accesso all’inner circle sociale delle persone più popolari in circolazione – in questo caso un trio di bellissime e crudelissime fanciulle che dominano la loro piccola corte di provincia a Evanston, Illinois.

Lindsey

Cady poi è particolarmente un’outsider: è la sua prima esperienza scolastica, visto che per i primi sedici anni della sua vita o giù di lì è stata istruita a casa da due genitori che per lavoro viaggiano molto e spesso in posti cosiddetti “lontani dalla civiltà”. È in altre parole una tabula rasa, quella che gli anglofoni chiamano blank slate: senza pregiudizi e preconcetti, pronta ad assorbire tutta questa nuova conoscenza della quale non aveva mai avuto esperienza prima (scopriamo per esempio che il suo unico flirt fino a quel momento avvenne quando aveva cinque anni, e finì malissimo). E quindi non ha costrutti sociali prefabbricati in testa, e accetta tutto quello che le viene detto senza discuterlo troppo: “se mi dicono che si fa così” pensa “io faccio così, in questo modo verrò accettata”. E siccome i modelli ai quali decide di ispirarsi sono un abisso di crudeltà passivo-aggressiva, ecco che si ritorna a Nietzsche.

Allora vale tutto

Questa particolare dinamica basata sulla totale ignoranza di ogni norma sociale da parte della protagonista è quello che dà modo a Mean Girls di mettere in scena una sequela infinita di comportamenti orribili, di telefonate velenose e di pettegolezzi taglienti. In parole più semplici, l’intero cast di Mean Girls fa, a modo suo, schifo: i rapporti tra le tre Plastics ruotano intorno all’imitazione acritica, all’elitismo del noi contro loro, all’odio e al bullismo come primo motore di ogni interazione sociale. Regina, Karen e Gretchen sono maligne, crudeli, manipolatrici, false e ipocrite: tutti lo sanno, tutti se lo aspettano e di conseguenza il film può alzare quasi subito il volume a 11, e tenere fede al suo titolo.

Mean Girls Plastics

Il film diventa quindi una sorta di educazione sentimentale al contrario, nel quale, scena dopo scena, vediamo Cady trasformarsi in “una di loro”, e possiamo studiare così da vicino, con quella curiosità da zoologa che caratterizza anche il personaggio di Lindsey Lohan, la sua discesa agli inferi. Ogni scena, ogni singola svolta di trama, ha quello come orizzonte finale: dimostrarci come si possa diventare cattive semplicemente per osmosi, o per mancanza di alternative, o anche più banalmente nella speranza di conquistare il ragazzo dei propri sogni. Ora della fine del secondo atto, Cady è diventata quel mostro contro il quale aveva creduto di lottare fino a quel momento, spiandolo e sabotandolo in ogni modo.

Sì, ma oggi?

Oggi Mean Girls non ha perso un’oncia della sua carica, perché al netto di certi dettagli che lo rendono indiscutibilmente un figlio del suo tempo rimane, nel suo carattere generale, una storia universale, ambientata in un liceo dei primi anni Duemila ma trasportabile, con i dovuti aggiustamenti, al 2024, o al 1984, scegliete voi la direzione che preferite. Ci sono, certamente, qui e là delle gag che oggi suonano un po’ datate, qualche stereotipo fin troppo facilone – l’indiano bravo in matematica – e un paio di plot point un po’ scivolosi (pensate al coach pedofilo che però guarda caso sceglie due ragazze sessualmente attive e più mature della loro età, come a tentare di giustificare la sua infatuazione). E anche in una scuola popolata da stereotipi, il personaggio di Damien spicca per il suo non avere alcuna caratteristica che lo distingua dal modello dell’amico gay che ama il rosa e sa tutto di gossip e cultura pop.

Plastics

Ma d’altra parte Mean Girls è un film che parla anche per stereotipi, per scelta e non per pigrizia o imperizia. E il confine tra uno stereotipo e un archetipo è sottilissimo, e nessuno si sognerebbe mai di prendersela con i secondi. Il punto è questo: le singole battute, in qualsiasi commedia e non solo, saranno sempre a rischio di invecchiare, perché una cosa che ci faceva ridere vent’anni fa oggi potrebbe lasciarci indifferenti o metterci in imbarazzo – vale per questi anni ma valeva anche cinquanta o cento anni fa, altrimenti saremmo ancora fermi a Ridolini. Quello che conta in Mean Girls è che si potrebbero anche selezionare le battute invecchiate peggio e sostituirle con altre più ficcanti e contemporanee: l’importante è lo spirito del film, quello che vuole raccontare e dimostrare, e questo non solo non è invecchiato di un giorno, ma rimane ancora oggi insuperato.

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