Questo articolo fa parte della rubrica Rivisti oggi

Di recente, Billy Dee Williams ha dichiarato, relativamente allo spinoso argomento della blackface, “se sei un attore devi poter fare quello che vuoi”. In Mezzogiorno e mezzo di fuoco non c’è nessuna blackface, in compenso c’è tutto il resto, e senza freni: un uso smodato della parola con la N, battute sullo stupro, violenza sulle donne, omofobia. Tutto quello che ci si aspetta da un film che prende in giro e smaschera la stupidità del razzismo insito nella società americana fin dai suoi primordi, ai tempi del Vecchio West; ma questo passaggio è sfuggito più volte a parecchia gente nei cinquant’anni di storia del film di Mel Brooks.

Mezzogiorno e mezzo di fuoco è la satira più feroce di Mel Brooks

Sì, forse persino più cattiva di quella del nazismo in Per favore non toccate le vecchiette, e sicuramente più di quella, universale ma surreale, di La pazza storia del mondo. Mezzogiorno e mezzo di fuoco è un film politico, che parla del passato degli Stati Uniti per metterne alla berlina anche il presente, e che è stato fatto per dimostrare, a colpi di risate, quanto razzista e biancocentrico sia sempre stato il Paese a stelle e strisce, anche dopo avere in teoria sconfitto lo schiavismo e aver compiuto la trasformazione in luogo civile.

Mezzogiorno e mezzo di fuoco Mongo

Non è difficile capire che anche le battute peggiori di Mezzogiorno e mezzo di fuoco hanno una seconda lettura, un’intenzione che va al di là della superficiale evidenza. Lo dimostra il fatto che le facciano solo “i cattivi”: Lamarr, il suo scagnozzo interpretato da Slim Pickens, tutti coloro insomma che rappresentano in teoria il progresso, le istituzioni, la civiltà, e che in realtà hanno una visione del mondo ancora basata sulla presunta superiorità dei bianchi sui neri, dei maschi sulle femmine e in generale del più forte sul più debole.

L’eroe senza macchia

Altra indicazione del fatto che dietro quello che sembra razzismo, e cattivo gusto nel godersi la possibilità di dire cose orribili e “proibite”, ci sia in realtà un ragionamento più complesso e un ribaltamento delle prospettive è il fatto che il protagonista, lo sceriffo Bart, sia un personaggio perfetto. È bello, fortunato, simpatico, alla fine piace a tutti, anche a quelli che in teoria dovrebbero odiarlo. Seduce la donna più bella del West senza neanche doverci provare, ha sempre l’idea giusta al momento giusto e non ha mai, in tutto il film, un istante di esitazione o di dubbio.

Lamarr

È anche troppo perfetto, volendo (ma per quello c’è Gene Wilder che gli fa contraltare), ma è proprio quello il punto: Bart vive in un mondo che lo considera inferiore e indegno di rispetto, e lui se ne frega, tira dritto e dimostra con i fatti di essere molto meglio di chi lo apostrofa con epiteti razzisti o vorrebbe sparargli solo per il colore della sua pelle. A tratti è fin troppo superiore agli idioti che popolano il West di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, ma in fondo anche questa esagerazione è parte della cifra stilistica di Mel Brooks. Resta il fatto che chi lo considera un film razzista perché è pieno di battute razziste non tiene in considerazione il dettaglio fondamentale: tutti, all’apparenza, odiano Bart… tranne il regista che si schiera sempre dalla sua parte, che è poi la cosa più importante.

Postmodernismo e delirio

C’è poi un ulteriore strato di significato di Mezzogiorno e mezzo di fuoco che lo eleva non solo a capolavoro di comicità, ma a grande film western. Perché il racconto del West e della frontiera è sempre stato un mix tra realtà e fanfaronate da pescatore, e la storia degli Stati Uniti in quegli anni è nata che era già mitologia, e quindi inaffidabile per sua stessa natura. Mel Brooks sceglie di raccontare questa cosa usando gli strumenti del cinema: il film è disseminato, anche ben prima del finale che infrange tutte le quarte pareti del mondo, di dettagli che indicano che gli stessi personaggi (alcuni, almeno) sanno di vivere su un set, sanno di essere protagonisti di una storia e non di una cronaca vera, sanno che certe cose succederanno perché lo richiede la narrazione, non perché abbiano senso.

Finale

È come se Mezzogiorno e mezzo di fuoco fosse ambientato in uno dei Wild West Show che Buffalo Bill portò a teatro dopo essersi ritirato dalla vita da cowboy, e tutti i suoi personaggi lo sapessero: i cattivi sanno quando bisogna lanciarsi in una risata malefica, c’è addirittura chi (Lamarr) si rivolge direttamente al pubblico alla fine di una scena, e l’idea stessa di sconfiggere i cattivi costruendo un set cinematografico per confonderli urla fortissimo “postmodernismo” e “decostruzione” e altre parole simili. Che ovviamente significa anche ironico distacco: quello che serve per capire come mai il film di Mel Brooks sia uno dei più grandi manifesti antirazzisti della storia del cinema americano, pur sembrando esattamente l’opposto.

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