Sia in Dune che in Furiosa c’è una ritualità da spettatori per entrare nel deserto. È la voce Sardaukar che apre entrambi i film di Denis Villeneuve con una scritta sul nero. È l’inizio con gli alberi piegati dall’esplosione atomica, il voice over durante i loghi, della saga di Mad Max. Ci sono poi regole precise per sopravvivere al suo interno che chi entra deve conoscere bene. Chi invece già ci vive le ha imparate per esperienza diretta. Il deserto è uno spazio narrativo riscoperto con grande vigore negli ultimi anni del cinema.

Incollate ad esso, come tutte le buone opere d’arte fanno, ci sono le ansie del nostro tempo: dal cambiamento climatico che si sta ormai mostrando nella sua devastazione tangibile, alla paura di un’apocalisse nucleare. Il futuro, per il cinema, è nel deserto, con il deserto e verso il deserto.

Tutto sembra nascere da Oppenheimer. Anche lì c’era un deserto. Nel New Mexico il Trinity test ha realizzato il futuro per un attimo. L’ha fatto vedere nella forma di un muro di fumo e detriti. L’umanità è cambiata dopo il 16 luglio del 1945. La visione mistica dello scienziato, diventato distruttore di mondi, alla fine dell’opera di Christopher Nolan è in sintesi quello che il cinema ha raccontato, e sta raccontando, nei suoi giorni dopo l’apocalisse. Il deserto che viene a crearsi dalla fine dei tempi si può gestire in due modi: rifiutandolo, quindi cercando di trovare una soluzione, di riportare tutto allo stato di partenza, oppure accettandolo. Rassegnandosi cioè al fatto che il deserto c’è, e ci sarà. Il primo è il caso di Dune (il sogno delle oasi dentro Arrakis). Il secondo lo è di Furiosa, dove la gente ha smesso di chiedersi se sia possibile cambiare le cose. La domanda ora è: come sopravvivere?

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Il grande spazio del deserto

Per le narrazioni occidentali il vuoto è uno spazio interiore. Un luogo di accesso a una forma verità. Chi lo attraversa è come se, per la sceneggiatura, si sottoponesse al poligrafo. Cadono le maschere tra la sabbia e il sole, la prova dell’orizzonte senza fine fa emergere tutto ciò che si prova a nascondere a sé e agli altri. 

Un luogo simbolico iniziato con il vangelo. I quaranta giorni di Gesù nel deserto sono, narrativamente, la grammatica con cui ci è stato insegnato a leggere quello spazio. Lì si incontrano le tentazioni, il male con cui lottare o fare pace. Si esce cambiati in maniera misteriosa. Non è un caso che Herbert metta a confronto il suo messia, Paul Atreides, proprio con le Dune di Arrakis. Ci si può elevare, pensa lo scrittore, nella privazione dei beni materiali, anche quelli essenziali. Quando una goccia diventa di un valore inestimabile, l’uomo è costretto a rientrare in contatto con il proprio corpo scoprendone tutta la ricchezza che possiede per natura.

George Miller cambia registro. Non ha fiducia nell’umanità. Nel deserto è venuto fuori il peggio: l’inferno, ma soprattutto l’idiozia. I figli della guerra, Immortan Joe, ma anche Dementus (nomen omen) e i suoi seguaci sono il peggio che l’umanità ha da dare. Non certo a livello fisico dove sopravvivono a tumori, riescono a resistere a temperature impossibili per ore, sono durissimi, ma sul piano intellettuale. Sono dementi, appunto. Sparano frasi altisonanti tutte loro, ma in fin dei conti non sono altro che dei bambinoni convinti di essere mito in un mito (ne parleremo, prossimamente, di quanto Furiosa usi il linguaggio dei film per bambini per definire il suo mondo). 

Dune Mad Max

La scarsità delle risorse e l’attualità di Dune e di Furiosa

Sono le piccole cose che contano. Furiosa inizia in un idillio molto provvisorio e biblico. La giovane coglie un frutto dalle verdissime piante. È una delle ultime cose che farà prima di essere rapita dal paradiso. Più che un luogo dove si sta in armonia è, per Miller, un posto dove si mangia e c’è ombra. La scarsità delle risorse è il grande tema del blockbuster presente da Thanos a oggi. Là dove le statistiche mostrano che l’ecoansia e i temi ecologisti sono minoritari nelle sceneggiature, questo cambia quando si osserva la portata simbolica di molti MacGuffin: oggetti che riportano benessere, magie che ristabiliscono la salute della terra. Anche le motivazioni di eroi e villain girano quasi sempre in quel senso ormai.

È difficilissimo girare film nel deserto. Lo sa bene David Lynch che con il suo Dune aveva trovato ogni ostacolo possibile e immaginabile. Però che sia il vuoto di Gravity o il “void” di Deadpool e Wolverine, gli spazi sconfinati sono l’equivalente di una tela bianca su cui ambientare e filmare ciò che si vuole. Nel nuovo film Marvel Studios ci si aspetta che possa succedere la qualunque: dai riferimenti “brutalmente meta” come il logo della 20th Century Fox distrutto a un cameo dopo l’altro. Deadpool può essere veramente libero di essere se stesso nel vuoto. Anche per i supereroi serve il nulla. In fondo la carica di Endgame, così piena di dettagli e personaggi, avviene proprio nella polvere. La narrazione si libera dal problema delle conseguenze, del radicamento in un territorio fatto di edifici e di civili.

Furiosa va da un angolo all’altro del deserto

Dipingendo su questo foglio bianco George Miller porta Furiosa da un angolo all’altro delle Wasteland. È un world building molto più netto di quello di Fury Road, e al contempo meno sorprendente. Fa capire ancora di più come si sopravviva, quale sia l’organizzazione di potere. Geniale, veramente, la popolazione che vive come talpe (o formiche) sotto terra in un intricato sistema di cunicoli. Anche nel giallo della sabbia o nell’arancio della terra radioattiva c’è sempre un sopra e un sotto in cui muoversi. 

Se in Dune il deserto può essere usato a proprio vantaggio, non è la stessa cosa in Furiosa. Dove tutti si sono ritrovati contemporaneamente a doversi abituare alla quella condizione in uno stato di sostanziale parità. In Dune il deserto dà. In Furiosa toglie. 

È un cambio di paradigma nell’immaginare il futuro. Siamo lontani dagli anni ’80 in cui c’era più Blade Runner che Mad Max, dove il futuro era sì triste, ma pieno di cose. Oggi questi due filoni pre apocalittico (le città che stanno per esplodere come in Akira) e post apocalittico (quando sono state spazzate via) si sono invertiti. Anche le serie come Fallout e, perché no, The Last of Us si svolgono in terre di nessuno.

Ritorna il western come genere. Ovvero una narrazione fatta di confini, di uomini soli contro la natura, di leggi da far rispettare e del tentativo titanico di far attecchire la vita in terre selvagge. Non è una resa per il futuro secondo il cinema. È l’invito a prepararsi: presto ci sarà da rifare tutto daccapo.

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