Durante la produzione dei Goonies Steven Spielberg confessò a Richard Donner di averlo assunto perché era un “bambino più grande” di lui. Se dovesse esserci una definizione critica, una di quelle che riassumono un’intera carriera, potrebbe benissimo essere questa. La scomparsa del regista all’età di 91 anni ha messo in evidenza quanto oggi manchi un cinema come questo. Girato esclusivamente con il cuore, messo in scena con la semplice voglia di raccontare storie.

Non sempre però venne capito, talvolta fu proprio la genuinità delle sue opere ad essere confusa con povertà contenutistica o di stile. Era invece il segno di un regista che sapeva esattamente dove voleva arrivare. Era disposto a combattere lotte all’ultimo sangue proprio per fare in modo che tutto concorresse per raccontare la miglior storia possibile.

È un regista che guarda al pubblico, al suo stupore, che adatta lo stile per trovare la via migliore per tenere incollati allo schermo. “Se il pubblico non crederà che Superman stia volando, non avrò il film” disse alla produzione di quello che, grazie alla sua testardaggine, diventò il primo vero cinecomic. O, per lo meno, il modello che verrà emulato per i successivi 30 anni.

Un’impresa titanica, che oggi appare quasi scontata. Se si guarda il contesto in cui avvenne (il 1978), c’è da restare a bocca aperta. I fumetti non godevano di una grande fama, colpiva i produttori più la rigida struttura seriale, che le storie presenti all’interno degli albi. Per questo la televisione se ne era appropriata. Il genere aveva trovato la sua nicchia nel camp del piccolo schermo o nei contenuti pruriginosi e di serie b dei lungometraggi. I grandi registi si guardavano bene da toccare quella materia.

Richard Donner invece non aveva pregiudizi di alcun tipo. Nasce come direttore di serie tv, e arriva al cinema dopo una lunga gavetta. Forse per carattere, forse proprio per le esperienze di vita, non si tirò mai indietro dal maneggiare la narrativa “bassa” e di genere, ma lo fece con la mano sicura dei grandi. Per questo il suo successo arrivò spesso in silenzio e “fuori sincrono”. La sua reputazione passò con il tempo da quella di semplice artigiano a quella di artista con una grande visione di cinema. Con un percorso chiaro di film in film. E questo accadde proprio grazie a quel pubblico a cui lui era interessato esclusivamente a parlare e che fu il primo suo sostenitore. 

 

superman 1978

 

Il suo Superman è uno dei più grandi esempi di rispetto della fantasia e dell’immaginario collettivo. È un affresco di misura ed equilibrio. Sa prendersi sul serio, ma non troppo. Sa essere complesso, ma anche accessibile a tutti. Non vuole essere incredibile, ma credibile. Ha affetto per l’universo di carta stampata da cui attinge e lo plasma dandogli la forma di un film vero. Prende Mario Puzo alla sceneggiatura. Il più grande dei più grandi, il simbolo della scrittura adulta, e attacca in questo modo ogni pregiudizio che i fumetti si portavano appresso. Azzecca il casting di Christopher Reeve, ma soprattutto affida la parte di Joe-El a Marlon Brando (drenando pesantemente parte del budget). Fonde la Hollywood “alta” con quella “bassa” e trova in questo il “popolare” come sinonimo di quella cultura di massa che è capace di influenzare generazioni intere.

Lui ci credeva, gli altri meno.

Per Richard Donner l’avventura era una cosa seria. Non un passatempo, ma una celebrazione dell’immaginazione di grande importanza nella missione del cinema. Nel suo mondo di bambini (malefici, troppo cresciuti, ma anche semplicemente genuini) l’azione non è una parentesi, ma una cornice entro cui succede tutto. I suoi personaggi sono statici, fermi nella loro condizione di partenza. Poi l’avventura li cerca, anche se vogliono evitarla, ed è lì che inizia il film. E non si ferma mai! Succede in Arma Letale, ma anche nel sottovalutato Solo due ore dove un detective deve scortare un detenuto dalla prigione al palazzo di giustizia in 120 minuti. E li viviamo quasi in diretta. Si diverte lui, ci divertiamo noi.

Regista di adulti per bambini, prende dal mondo di questi ultimi tutto il senso della crescita. Non sono le parole a farci cambiare, ma le esplorazioni, i giochi, i rapporti conflittuali. Che siano due poliziotti, un gruppo di amici o una coppia di amanti e un borseggiatore, sono le corse continue e instancabili a plasmare il loro rapporto, non i discorsi. Concretezza e semplicità, autenticità contro tutte le maschere autoimposte che non distrugge ma, anzi, usa come campo di gioco.

Gli stessi principi che, secondo quel poco che possiamo sapere della sua vita privata, l’hanno guidato anche nei rapporti con le altre persone. Ricordato dai colleghi come una figura generosa e disponibile, Donner ha vissuto le relazioni lavorative con i “suoi” attori con affetto. Tante le collaborazioni ripetute di film in film, segno della stima e dell’affinità. Nessun set fu però come quello dei Goonies. Lì il regista, che non ebbe figli, trovò la sua vera famiglia (come disse nel 1985 in un’intervista all’Associated Press). Tanto che poi aiutò direttamente Jeff Cohen (Chunk) a diventare avvocato e pagò personalmente la riabilitazione di Corey Feldman.

C’è però un’inquietudine che attraversa la filmografia di Richard Donner. È la presenza del male assoluto. Che, a ben guardare, non va troppo capito, ma combattuto perché è così che funziona il mondo. Non indugia mai sulla violenza in senso pornografico, ma non la rifiuta mai quando deve esserci. La usa come uno strumento da bilanciare con il contagocce per dare il sapore giusto. Nei Goonies la censura fu costretta a tagliare le molte parolacce e un inizio con un suicidio simulato che sembravano non appartenere a un’avventura da ragazzi. E invece è proprio in questo che si esprime il genio di Richard Donner: saper far filtrare la durezza reale del mondo in racconti accoglienti e puramente cinematografici.

È stata questa la sua missione: dimostrare che la semplicità è il linguaggio più potente e va preso sul serio.

 

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