Qualche settimana fa un pezzo di opinione di Variety ha posto una domanda fondamentale dalla risposta piuttosto difficile: come ha fatto il biopic a diventare uno dei generi predominanti della nostra epoca? L’interrogativo, nato dopo la visione di Maestro, ha chiamato in causa molti titoli di quest’anno, in prima fila nella stagione dei premi. Oppenheimer è il caso più clamoroso: la prima volta in cui Christopher Nolan si occupa di una persona realmente esistita è diventato uno dei (due) casi cinematografici internazionali dell’anno. Rilevante è anche Priscilla, nuova fatica di Sofia Coppola dedicata a Priscilla Presley. Una storia complicata da gestire, data la giovane età (14 anni) in cui la giovane ha iniziato ad essere frequentata dal cantante, molto più grande di lei. Un controcampo al femminile che fa il paio con Elvis di Baz Luhrmann ampliandone il discorso sulla celebrità.

All’elenco si aggiunge anche Ferrari, in cui Michael Mann rilegge l’uomo e la macchina attraverso il trauma privato. Si potrebbe aggiungere a questo anche Air che ha al centro le celebri scarpe Air Jordan, ma in definitiva racconta le vite di coloro che le hanno create. Bastarden, presentato a Venezia, parla del capitano Ludvig von Kahlen prendendo spunto da una storia Danese. Anche in Italia si può individuare qualche caso significativo come Nata per te, un biopic su Luca Trapanese o Mi fanno male i capelli, il più anticonvenzionale, meno attaccato alla vita e più alla fascinazione di Monica Vitti.

Nell’articolo si propone come spiegazione al boom di biopic il rinnovato bisogno di trovare la realtà all’interno del cinema. Corsi e ricorsi storici che hanno portato però il genere dalla “serie B” ad essere veicolo privilegiato di premi importanti e di consenso. A volte lo schermo si usa per evadere, a volte per ribadire che anche fuori dalla sala si possono fare grandi cose. In definitiva, proprio come spiegato nel pezzo (che vi invitiamo a leggere per esteso qui) il biopic non è più quello di una volta. 

Il biopic: da un genere minore a un veicolo per gli Oscar

L'ora più buia biopic

Si può individuare il primo biopic della storia in The Execution of Mary, Queen of Scots di Thomas Edison. Datato 1895, il titolo dice già tutto del contenuto dei suoi pochi secondi. Una vita mostrata in un momento fondamentale: la morte. In generale però nei primi anni del cinema il racconto delle esistenze è stato relegato a un genere di secondo piano, spesso melodrammatico e a senso unico. In definitiva poco considerato. I soggetti erano eroi, modelli da seguire, grandi imprese e grandi vite enunciate quasi dall’inizio alla fine. Negli anni del dopoguerra rimase materia per la TV. Le emittenti cercavano di condensare in due ore l’intera esistenza di una persona nei loro film. Non erano granché, spesso opere istituzionali e senza grande verve. 

Eccezioni a parte, il genere ha avuto una nuova vita a partire dalla metà del primo decennio del 2000. Ray, nel 2004 e Truman Capote – A sangue freddo, nel 2005, avevano mostrato le due strade del biopic. La prima: raccontare le gesta dei loro soggetti dalla nascita alla morte, con uno scopo spesso puramente informativo. La seconda: tagliare un momento significativo capace di riassumere un’esistenza e analizzarlo in chiave soggettiva, per fare uno studio di carattere anche nelle sue contraddizioni. 

Iniziò la grande era dei biopic. Ci furono esempi di racconti molto corretti come Milk e Lincoln, ma anche esperimenti anticoncezionali come Io non sono qui. Grandi registi e grandi attori si attaccarono al genere come un veicolo per conquistare nomination agli Oscar e i favori del pubblico. L’impostazione, bene o male, iniziò a diventare standard. Storie vere di ribalta, il massimo del sogno americano che rivive in uomini e donne che hanno cambiato le cose. Un genere edificante, che fa star bene. 

Recitare in un biopic

Oppenheimer nipote biopic

Se per i personaggi che non esistono il lavoro di un attore è quello di costruirli nella loro interezza, nel caso dei film biografici si deve studiare una persona reale. La scelta è tra l’essere simili, quasi a fare un’imitazione dell’originale, o distaccarsene tradendo la fonte. Il pubblico, ma soprattutto gli Oscar, premiano di più la prima via. Per certi versi quindi il biopic è un genere banalissimo sotto il profilo interpretativo. Così inteso lascia poco spazio all’attore e ne dà molto ai truccatori. Oppenheimer e Maestro si muovono nello stesso pensiero imitativo. Il primo ha ricreato con precisione i filmati d’archivio, il secondo si è impigliato nella polemica sul naso (leggi qui).

Il merito però dei due film è di essere riusciti a far andare di pari passo il bisogno di fedeltà con l’approfondimento soggettivo. Oppenheimer soprattutto si concede il tempo per sequenze che scaturiscono puramente dall’emotività del suo protagonista. Non si limita a informare, ma diventa esperienza. Maestro invece tende a portarle all’esterno il mondo interiore, grazie ovviamente alla musica. Le sequenze migliori, in cui conosciamo di più Bernstein, sono proprio quelle in cui dirige. 

La musica è anche il grande collante di molti film biografici degli ultimi anni. È quella che permette, spesso, di vendersi bene al botteghino (Bohemian Rhapsody ed Elvis per dirne due). Un vero e proprio genere a parte, il biopic musicale è ancora una grande promessa che non è riuscito a farsi sistema (come invece per un decennio hanno fatti i cinecomic), ma ha una promettente capacità di attirare un pubblico spesso distante dai blockbuster classico (come indica questa ricerca). 

Musica Maestro

Anche Maestro, sebbene la presenza di numeri musicali non sia il suo unico centro, rientra pienamente in questa categoria. Come prodotto ha tutto quello che si chiede al giorno d’oggi al genere. Una storia vera vista però sotto un profilo meno noto, quello chiuso tra le pareti di casa e contenuto nel rapporto con la moglie Felicia (Carey Mulligan governa da sola il film). Si parla di intimità, molto di più di quanto si parli di musica. C’è dentro la classica ricerca artistica per creare qualcosa di imponente. Il centro è però l’uomo, ancora di più che la sua vita. Un prodotto ben confezionato, che proprio in questa correttezza di forma dimostra come il genere si sia evoluto. È diventato negli anni l’interprete del nuovo bisogno del pubblico di modelli di riferimento, di idoli da venerare. Anche nei loro difetti.

Per questo il biopic è tornato con questa forza, non solo per il bisogno di realtà nelle storie ma anche nei personaggi. I prodotti, le opere d’arte, le canzoni che mette al centro interagiscono con il mondo al di fuori della sala. Si va a vedere un film sui Queen anche se non si è loro fan. Se invece si segue il gruppo la visione diventa quasi imperdibile. Soprattutto il biopic è un genere ammantato da un inguaribile ottimismo. Anche quando va a decostruire i suoi personaggi, non è quasi mai distruttivo come potrebbe esserlo invece un documentario. Basta vedere come la serie Dahmer ha mostrato il serial killer. Per tenere dieci puntate ha dovuto renderlo affascinante. Un buon documentario non sarebbe mai caduto in questo errore. 

Così in un cinema che sembra lasciare da parte i supereroi, il biopic ci racconta che c’è ancora bisogno della presenza di figure leggendarie. Quando tutte le trame sono già state messe in scena, il modo migliore per tornare ad essere credibili, ma soprattutto significativi, sperando di avere un impatto concreto sul presente, è prendere dei modelli, scomporli e renderli così grandi quanto lo schermo che li ospita e fingere al contempo che siano persone comuni.

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