Snowpiercer uscì nei cinema italiani il 27 febbraio 2014

Avevamo già dedicato uno speciale a Snowpiercer tre anni fa, per parlare non tanto (o comunque non solo) del film quanto della sua importanza in quanto opera che portò Bong Joon-ho a Hollywood e lo imboccò quindi lungo la strada dell’Oscar (e del disprezzo di Donald Trump). E infiniti altri pezzi sono stati scritti sul film tratto dalla graphic novel Le Transperceneige, sui suoi sottotesti (che tanto sotto- non sono, anzi) sociopolitici, sulla quantità di temi diversi che affronta e affastella, dal cambiamento climatico alle lotte di classe. Per celebrare i dieci anni dalla sua uscita al cinema, quindi, cosa si può scrivere che non sia già stato espresso altrove?

Snowpiercer è bello

La nostra scelta è semplice: ricordare Snowpiercer non per quello che ci vuole dire sulla natura dell’essere umano e sui differenti costrutti sociali che abbiamo inventato per mantenere la maggior parte della popolazione in uno stato di subordinazione, dipendenza e infelicità cronica, ma in quanto bel film. Perché l’opera di Bong è talmente densa, talmente provocatoria in ogni suo dettaglio – parole, azione, ma anche set design, colonna sonora, colori, tutto – che si tende a guardarla cercando di assorbire qualche grande verità, di cogliere una sfumatura che finora ci poteva essere sfuggita. E ci si dimentica che Snowpiercer è anche questo:

Una scena del genere non sfigurerebbe se venisse piazzata in un action puro alla The Raid, dove il movimento e l’azione regnano sovrani. È una scena caotica per concezione (tanta gente chiusa in uno spazio stretto a menarsi) ma elegantissima nell’esecuzione, sempre chiara anche nei momenti più intensi e apparentemente disorganizzati. È una sequenza fondamentale anche per quello che il film vuole raccontare, ma è prima di tutto una bellissima scena di cinema, pensata e coreografata da uno che sa che la settima arte è anche pura bellezza (per quanto sporca e coperta di fango e grasso).

No, davvero, è proprio bello

Quella scena è diventata un po’ il simbolo di chi vuole reclamare Snowpiercer come grande film action, ma non è neanche lontanamente l’unica sequenza da strapparsi i capelli. Ogni volta che appare in scena Tilda Swinton, per esempio, il set si illumina – di una luce spettrale e un po’ inquietante, certo, ma comunque si illumina. È in overacting costante? Certo, è un personaggio quasi da Hunger Games, completamente fuori contesto in quel treno, almeno all’inizio.

Snowpiercer Tilda

È anche però, volontariamente o meno, il Virgilio del film, che ci conduce in un viaggio per le meraviglie di quei vagoni che la povera gente (con la quale lo spettatore è spinto a identificarsi) non sa neanche che aspetto abbiano. La sua Mason è il suo treno, e il modo in cui Bong Joon-ho fa coesistere le due entità e ci racconta la loro codipendenza è, ancora una volta, grande cinema, che sa far parlare le immagini senza bisogno di dover sprecare parole per spiegare qualcosa che dovrebbe essere evidente semplicemente usando gli occhi.

Snowpiercer è proprio proprio bello

Se volete possiamo parlare di come Chris Evans, Ed Harris, John Hurt riescano a reggere il confronto con Tilda Swinton, o quantomeno a non farsi schiacciare dalla sua presenza. Uno dei classici problemi dei registi orientali che arrivano a Hollywood è quello di non riuscire a comunicare efficacemente con i propri attori – problema che chiaramente non si è posto durante le riprese di Snowpiercer, perché è chiaro che tutto il cast è diretto con un’idea molto forte e soprattutto coerente. Tutto il film è un ingranaggio, e gli attori sono contenti di calarsi nei panni della singola rotella, sapendo che avranno comunque modo di brillare quando è il loro momento, anche se solo per qualche minuto.

Non Tilda

Insomma: Snowpiercer è un grande lavoro di artigianato cinematografico, oltre a essere un film importante e urgente e provocante et cetera. È un bellissimo film che spreme ogni centesimo dai suoi 40 milioni di budget, e che con il senno di poi di un decennio di cinema non meritava di incassarne appena 80. Poco male: è bastato per considerarlo un relativo successo, e dare modo a Bong Joon-ho di continuare la sua esperienza hollywoodiana. E alla fine è arrivato Parasite: poteva andare decisamente peggio.

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