Spider-Man: No Way Home, tutte le volte in cui ci è entrato un granello di polvere negli occhi

Non sto piangendo, mi è entrato un multiverso nell’occhio. Spider-Man: No Way Home è un’esperienza cinematografica da montagne russe, e sì, utilizziamo volutamente questo termine in senso positivo. Un capitolo attesissimo nella saga del Ragno, che porta a compimento la prima trilogia di Tom Holland e apre tantissime altre possibilità. È anche il primo vero incontro con il multiverso Marvel, da tempo accennato più volte, ma mai veramente visto in azione.

Tutte queste righe di introduzione sono state usate per prendere tempo e dare quello spazio necessario tra gli occhi del lettore e i molti spoiler che seguiranno. Nonostante una campagna promozionale che ha fatto acqua da tutte le parti permettendo leak a dir poco clamorosi (come l’intera colonna sonora a poche settimane dall’uscita), siamo arrivati in sala sapendo ufficialmente pochissimo del film. Per chi non è un addetto ai lavori o un “appassionato troppo curioso” Spider-Man: No Way Home ha regalato emozioni con uno spettro ampissimo di sfumature. Ansia (l’azzeccata scena del senso di ragno), esaltazione (il combattimento finale) e guance bagnate.

Andiamo ad analizzare meglio quest’ultimo fenomeno, vedendo i momenti in cui è arrivata della polvere negli occhi della redazione durante la proiezione all’Arcadia di Melzo provocando arrossamenti e perdita di liquido oculare.

Qualcuno ha pure pianto.

 

Spider-Man No Way Home

 

Zia Ben e Zio May

Indiziata numero uno nel toto morti, May Parker (occhio al cognome!) si è rivelata la Ben Parker (questo è giusto) dell’universo corrente. L’esecuzione del colpo di scena, con l’aliante di Goblin che la ferisce a “morte ritardata”, dandole il tempo di alzarsi e pronunciare la fatidica “da un grande potere derivano grandi responsabilità” non è perfetta. Sembra infatti che sia la frase stessa a causarle la morte e non le ferite. Quindi no, in quel momento l’emozione era tenuta a bada dallo stupore. Si vive quella scena ragionando su cosa significhi rispetto agli step di formazione di Peter e come si rapporti con la morte di Tony Stark (equivalente maschile dello zio Ben).

È dopo che la scena colpisce al cuore. Ma proprio tanto. E lo fa in due momenti separati. Prima indebolisce anche gli animi più di roccia con quella splendida inquadratura di Peter. Il suo sangue si mischia alle lacrime e alla pioggia mentre osserva un J.J. Jameson trasmesso in diretta su un enorme monitor. 

Poco più avanti, quando MJ e Ned recuperano il loro amico in lacrime, John Watts tira fuori le armi più forti. Ci mostra un lungo abbraccio dei tre. Assomiglia tantissimo a quello girato da Cuaron in Roma, per come i corpi prendano la conformazione di una coperta avvolgente, di mura che riparano il supereroe nel momento in cui è vulnerabilissimo. Questo è puro Spider-Man, ed è quasi impossibile non sentirlo risuonare se si ama il personaggio e tutto quello che rappresenta. Il dialogo che segue è puro fumetto. Una carezza all’immaginario. Gli Spider-Man come fantasmi di un futuro passato si raccontano. Il dolore non è un qualcosa da cui sfuggire, ma è una parte della vita. Soprattutto, nella loro esperienza, è come si reagisce alle botte, e non come le si evita, che definisce l’esistenza stessa.

Puro Stan Lee.

 

Spider-Man: No Way Home

 

Lo sguardo di Andrew Garfield dopo avere salvato Mary Jane

Scena vista mille volte nei film di Spider-Man: una ragazza cade, l’eroe si getta a prenderla. Se non la prende muore. Se la acchiappa le dice di stare al riparo e torna in azione. Nello specifico momento della caduta di Mary Jane tutti ci aspettavamo quello che sarebbe successo sin dal trailer. Ovvero che l’Uomo Ragno di Tom Holland si avvicina, ma non riesce a prenderla. 

Farla morire sarebbe però stato assurdo, e lo si capisce anche senza essere esperti di sceneggiature. Se il protagonista quasi distrugge il multiverso per lei… non può essere una semplice caduta a toglierla dalla scena. E soprattutto non quando si ha già avuto una morte molto dolorosa per lui un’ora di film prima.

È il grande momento di Andrew Garfield, che gli permette di aggiustare il suo più grande fallimento: la morte di Gwen Stacy. In un film normale lui ce la farebbe, la porterebbe a terra e le direbbe di nascondersi. Spider-Man: No Way Home non è un film qualsiasi, ma è uno che corre spedito tutto il tempo salvo fermarsi per regalare generosamente tempo alle emozioni. Quindi Garfield salta, la salva, la porta a terra e… la guarda singhiozzando. Lì, se si è ben disposti, si può provare un’emozione incredibile e insolita. Anzi, unica fino ad ora. Ci si sente sollevati per un dramma risolto da un personaggio di un altro franchise, in un film diverso da quello in cui si è svolto per la prima volta.

E poi, vedendolo dalla prospettiva di Peter Parker, è finalmente una delle rare gioie che gli vengono concesse. Così strano però come momento di felicità. Che emozione complessa che regala John Watts e che bravo Andrew Garfield a ritrarla. È composta più o meno così: dal sollievo per il presente più il dolore di rivivere un trauma del passato, con l’adrenalina ancora in circolo per l’azione fatta, che si tramuta in lacrime nell’incontro con il volto incolume di Mary Jane. Noi spettatori immaginiamo che in quel momento lui abbia visto la sua Gwen Stacy. La nostalgia per un fantasma che è stato un amore che non è riuscito a proteggere.

In quel momento, all’improvviso, la sala si è ammutolita dopo essere esplosa in applausi a scena aperta. Un passaggio dinamico da rumore a silenzio assoluto che può benissimo essere un sinonimo dell’abusato “la magia del cinema”.

 

Spider-Man: No Way Home

 

Il finale in caffetteria

Un po’ come quando dopo tanti anni si incontra un amico dei tempi della scuola in giro per la città. Lo\la si incrocia per caso senza essere ricambiati. Ci si chiede che farà ora, come sarà la sua vita, se il tempo è stato clemente o è in cerca di pace. Il finale di Spider-Man: No Way Home arriva a una nota malinconica mai provata fino ad ora in questa trilogia. È per la prima volta un sentimento adulto, come quello di Peter, ormai cresciuto e diventato un uomo completo di tutti i traumi e le vittorie necessarie per capire cosa è la responsabilità.

La trilogia della “casa” si rivela essere una lunga storia di origini. Si aprono tante possibilità ora, e hanno la forma di uno scatolone di cartone, non più di una tuta high-tech. In quel dialogo impacciato e dolcissimo tra Peter e Mary Jane c’è tutta una storia d’amore che non è mai stata in primo piano, ma che si è rivelata fortissima non appena ci si è voltati a rivederla. Peter esce da quella porta con il sorriso di chi è grato per il tempo vissuto (“rifarei tutto”, dice MJ a inizio film) e nella neve si prepara ad affrontare il suo futuro.

Ma il vero colpo al cuore viene con la penultima inquadratura. Dalla finestra aperta si scorge la città illuminata nella notte. In primo piano una macchina da cucire, simile a quella che ci è stata mostrata a casa della nonna di Ned. Sul tavolo c’è la riproduzione lego dell’imperatore Palpatine, e il bicchiere di caffè servito da Mary Jane. L’eroe è cresciuto, Peter è diventato un uomo-ragno come gli altri due che l’hanno aiutato a salvare il multiverso. Quegli oggetti, i primi che arredano la sua casa, sono il simbolo di tutto ciò che gli è servito per diventare ciò che è ora, e sono il ricordo più prezioso che non vuole perdere.

Il film ci porta ad ammirare il bellissimo costume nuovo, vicino a quello immaginato da John Romita Senior nei fumetti. John Watts ricorda però che non è l’aspetto che fa il supereroe, bensì quello che porta con sé. In questo caso una macchina da cucire antica per realizzare da solo la sua immagine pubblica, il gioco che ha accompagnato la più fedele delle amicizie, un caffè servito con l’inconsapevolezza dell’amore che è stato. Un arrivederci, o forse un addio, mentre le mani si sfiorano per passarsi quel piccolo oggetto caldo e fumante. Spider-Man è definito da questo: non dai suoi poteri, nemmeno dal costume, ma dalle persone di cui è riuscito a prendersi cura. È la sua etica.

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