The French Dispatch fa rimpiangere il Wes Anderson che non c’è più.

Alzi la mano chi si ricorda Il treno per il Darjeeling. È il film del viaggio per Wes Anderson, quello in cui la sua consueta pulizia dell’immagine si fonde con l’idea di un movimento che riassume il cambiamento nei rapporti famigliari. Un film controllato, ma non troppo, che esprime sorprendentemente anche una grande libertà: costruisce delle rigide regole nell’organizzazione dei fatti e delle inquadrature e le tradisce poi per sovvertire le aspettative. Perché prima di tutto vengono i personaggi, poi la grammatica dell’esposizione.

I tre fratelli Whitman sono insieme su un treno. Non si vedono da un anno, da quando il padre è morto. Francis è ricoperto di bende e assume antidolorifici per via di un recente incidente. Vuole rivedere la madre e ha organizzato in segreto questa riunione di famiglia costringendo i fratelli, tenuti all’oscuro di tutto, ad andare con lui.

Rivedendo The French Dispatch, che è da poco arrivato su Disney+, si rimpiange molto quel Wes Anderson che ormai non c’è più. Quello che sapeva fondere la perfezione estetica, con l’imperfezione dei personaggi raccontati. Un autore che aveva il coraggio di spiazzare iniziando il film con Hotel Chevalier, uno splendido cortometraggio costruito sulla canzone Where Do You Go To (My Lovely)? di Peter Sarstedt. Così superiore al giudizio del pubblico, così sicuro dei suoi mezzi, che promette cose per poi disattenderle. Ne Il treno per il Darjeeling Bill Murray, attore feticcio del regista, corre all’impazzata per prendere il treno. La cinepresa attaccata a lui lo segue come in un film action. Rallentatore: è troppo vecchio, sta perdendo il Darjeeling Limited. Accanto a lui, più giovane e veloce, corre anche Peter Whitman (Adren Brody), che lo supera e si prende il treno\film.

Due aspettative ribaltate: l’inizio è un corto apparentemente slegato dal film, salvo poi rivelarsi un costrutto della mente di uno dei fratelli. E poi il protagonista percepito nella prima scena “ufficiale” si rivela solo un cameo. È passato ormai più di un quarto d’ora de Il treno per il Darjeeling e ancora non si sa cosa aspettarsi, né di che parli!

The French Dispatch è invece un altro Wes Anderson. Ancora più estremo per certi versi, ma più sbilanciato verso la sola componente visiva, meno in quella narrativa. Un’opera che dà tutto quello che ha promesso nelle prime scene e non ribalta mai le attese. Prende tre storie, tutte poco memorabili (ad eccezione forse della prima). Riempie poi di dettagli, personaggi, comparse, l’immagine. Anderson non è mai stato un minimalista, nonostante la simmetria e le palette di colori perfette, e qui porta all’estremo la sua poetica con una sovrabbondanza grafica senza eguali. Come una rivista piena di parole invade le immagini del suo “dispaccio” di informazioni. Troppe perché l’occhio le decifri.

Per la prima volta nella sua filmografia il montaggio corre più spedito di quanto possiamo vedere. Vorremmo che si fermasse, per ammirare ed esplorare la composizione. Anche sul grande schermo la quantità di elementi in scena richiede uno stop allo scorrere dei fotogrammi per essere ammirato appieno. Molto più vicino a un cartone animato, che ad un live action, i suoi modelli in miniatura non hanno più nulla dei veri esseri umani. I personaggi sono alieni che hanno costruito una simulazione molto vicina alla realtà che non comprendono. Mimano gesti, emozioni stereotipiche e senza significato.

The-French-Dispatch-Poster

Come scriveva Gabriele Niola nella recensione del film lo stile del regista è in continua evoluzione e The French Dispatch ne è l’ultima e più estrema espressione. Si muove molto verso l’alto. Ha una verticalità insistita sia nelle battute (il cartello vietato piangere sulla porta della redazione), sia nei movimenti dei personaggi. Cita le geometrie scenografiche di Jacques Tati e poi François Truffaut, Jean Renoir, Vittorio De Sica e chi più ne ha più ne metta. Scompare però quell’affetto umano, quella voglia di entrare nel profondo delle persone che caratterizzava quei film da lui tanto amati.

Solo chi ha lo stile può esercitarlo. Però The French Dispatch si rivela un’operazione utile al regista più che al pubblico. È come un test per vedere dove si può spingere il suo disegno a prescindere dai soggetti che ritrae. Le tre storie sono episodiche, incasellate in una quarta di contorno. L’unico tema comune è l’apatia, la ricerca di un’emozione interna al racconto da parte degli abitanti di una città senza brividi. Questo si tramuta all’esterno in un godimento solo intellettuale e mai immersivo. 

Il film è allora più interessante solo se letto in un percorso di ricerca del regista, e non come opera isolata. Se qualcuno volesse scoprire Anderson per la prima volta, non dovrebbe iniziare da questo!

Nella Nouvelle Vague francese gli autori imponevano se stessi nel film, per far corrispondere all’intera filmografia un discorso coerente. Anche Wes Anderson è animato da questo spirito di ricerca riconfermando e raddoppiando ogni volta il film precedente. In questa ultima opera c’è un Grand Budapest Hotel, con tutte le sue star e l’importanza del paesaggio, ma con un sentimentalismo ancora più astratto come L’Isola dei cani. 

The French Dispatch è un film geometrico, grafico, per nulla appassionante se si seguono i suoi personaggi. Bisogna infatti guardare altro: i palazzi, le strade, e il complesso apparato di mezzi di trasporto ed edifici di ogni tipo. La storia degli spazi, che viene raccontata sullo sfondo di quella delle persone, contiene molta più autenticità dei dialoghi pronunciati.

Wes Anderson ha smesso di ricercare una forma di equilibrio tra stile e sostanza, tra significato ed esposizione. Si è sbilanciato diventando così retorico e prevedibile, come può esserlo un discorso declamato a gran voce e con pronuncia perfetta senza però un qualcosa da dire. La forma diventa il contenuto ed è una scelta consapevole di un regista che ha in passato dimostrato di saper fare entrambe le cose.

Per questo non si può dire che The French Dispatch sia un brutto film di Wes Anderson, perché è il più coerente e il più estremo di questa sua nuova fase artistica. Il sotto utilizzo dei molti volti noti, ad esempio, è ormai un tratto caratteristico, ma non necessario e assolutamente superabile, della sua poetica.

Da un po’ di tempo sembra però che si stia arrivando al punto più estremo della stilizzazione tanto agognata. L’elastico ha raggiunto il limite. Si può cercare di espanderlo ancora, pur con il rischio di romperlo. Oppure può lasciarsi andare e ritornare indietro, con più velocità e con un controllo ancora maggiore, al punto di partenza: ovvero alla complessità su più livelli, non solo quella compositiva, ma anche quella emozionale.

Invece che varcare nuovi confini, questa ricerca all’interno del proprio cinema l’ha portato a chiudersi invece che aprirsi a nuove idee spiazzanti. Il nuovo Wes Anderson è quindi un regista che sta diventando sempre più prevedibile nel dare, e realizzare, esattamente quello che ci si aspetta da lui. Ogni volta un po’ di più. Ogni volta meglio.

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