Se fosse facile fare un film come Wonder ne avremmo almeno un paio all’anno. Invece anche lo spin off Wonder – White Bird, sempre tratto dai libri di R.J Palacio, fallisce malamente nel catturare i buoni sentimenti e proporli allo spettatore in una maniera accettabile. Il primo film, diretto da Stephen Chbosky, è come un dolce ricoperto da uno strato aggiuntivo di zucchero e accompagnato da un dolcificante e da un carnet di cioccolatini. Mangiato tutto, incredibilmente, ci si sente benissimo. Senza alcun effetto collaterale. È la differenza tra i prodotti artigianali e quelli fatti in serie. 

Perché ci sono lacrime facili e lacrime facili, c’è retorica e retorica. Quella di Wonder, grazie a un paio di ingredienti di qualità, lo eleva al di sopra della media dandogli quel tocco di sincerità che travolge.

Auggie è nato con una malformazione, dopo anni passati tra la casa e l’ospedale è venuto il momento di fare il grande passo e uscire dal nido. La sua faccia non è come quella dei compagni e il bambino la nasconde sotto un casco da astronauta. Lasciare questo oggetto a casa è tutto il centro del primo atto. Un’immagine la cui potenza ci viene ricordata proprio a pochi secondi dalla fine, in cui Auggie e noi con lui, ci rendiamo conto di essercene dimenticati una volta che il protagonista si è integrato con gli amici e ha superato le sue paure. 

Un film per le scuole sull’educazione

È tremenda l’idea che i film, o i prodotti artistici in generale, debbano essere concepiti come delle dimostrazioni. Un qualcosa con un’utilità retorica. Chi la pensa così prende una situazione e mostra come risolverla. Si mette al centro un tema e si costruisce un film per suscitare un dibattito su di esso, senza curarsi di modellare la realtà per creare qualcosa di più interessante (ovvero l’arte). Anche Wonder in parte lo fa: è smaccatamente un film sulla diversità e sull’educazione. Il suo merito è però di portare a termine la sua missione senza dimenticarsi di curare il punto di vista attraverso cui la svolge. Arriva così a conclusioni che non sempre sono quelle che ci si aspetterebbe. Ad esempio, in un film sulla gentilezza, il bullismo viene risolto all’opposto di ogni buonismo: con una rissa. Palacio e Chbosky infondono complessità in questa storia deliziosamente semplice. Riescono così a compensare la loro voglia di sviluppare una tesi con un’idea di cinema ben precisa. Questo lo rende a sorpresa un buon film.

Wonder

Wonder ha una funzione pratica: aiuta le famiglie, ma ancora di più le scuole, a intessere un dialogo con gli studenti (senza grandi limiti di grado, dalla primaria in poi) sui temi che attraversano la vita di ogni classe. Poi però, per lo spettatore esterno al mondo educativo, regala emozioni spontanee a partire dalla famiglia protagonista e da come gli dedica spazio.

L’andamento a storie intrecciate permette di osservare un punto di vista per nulla prevedibile: quello della sorella. Augie, eroe positivo in assoluto, si trasforma in quel capitolo in un fratello amato ma ingombrante. Come un pianeta enorme ha una gravità che attira a sé le energie e le attenzioni dei genitori. La solitudine e il sacrificio dei fratelli e delle sorelle di chi richiede particolare cura, è la svolta più interessante del film.

Il secondo ingrediente: la famiglia

Con Wonder si ride molto, e non era scontato. Merito della dinamica tra i due genitori Nate e Isabel. Julia Roberts interpreta una mamma che nasconde forse il senso di colpa per aver dato a August una vita diversa dagli altri bambini. Lo esprime in una cura eccessiva, compensativa, e una protezione soffocante. Owen Wilson è il vero ago della bilancia del film. Perfetto nel tono di Wonder costruisce un papà che nasconde un mondo interiore complessissimo (rivelatrice la sequenza in cui muore il cane di famiglia e lui è l’unico mostrato a singhiozzare, di notte, sul tavolo della cucina). Stempera tutto con dell’umorismo veramente azzeccato che va sempre a segno.

Papà e mamma possono avere anche due pareri differenti. La famiglia non è una struttura rigida. È un corpo in movimento come lo sono le persone che la costituiscono. Non era scontato. Alle due prospettive su come crescere Auguie si aggiunge una terza, quella della scuola, che rende il tutto molto più realistico. 

Wonder non scappa dal mostrare la rottura del patto educativo tra la scuola e le famiglie, prendendo il caso del bullo Julian. I suoi genitori, pur di difenderlo, si prendono la colpa di un atto vigliacco. Mostra una classe e dei professori in difficoltà di fronte a uno studente come non ne hanno mai avuti. C’è però la figura del preside, fin troppo saldo nei suoi valori e perennemente nel giusto, a riportare tutto, purtroppo, nei binari dei buoni sentimenti di fantasia. 

Wonder

Wonder azzecca il protagonista

Non esisterebbe alcun Wonder senza quel fenomeno che è Jacob Tremblay. Il lavoro che fa su Augie è deliziosamente immaturo nella migliore delle accezioni. È quello cioè di un attore che ha un grande talento, ma non ha qui ancora avuto tempo di tramutarlo in mestiere. Nella sua interpretazione c’è ancora, per una piccola parte, la migliore spontaneità. Sotto un ingombrante trucco, Tremblay riesce a entrare in sinergia con gli altri attori suoi coetanei in alcuni momenti meno “scritti”.

I dialoghi funzionano meno, pur avendo grandi frasi ad effetto, dei passaggi in cui la regia lascia fare ai bambini, ai loro movimenti e alle risate scomposte, che delineano bene le emozioni che passano nella classe. 

È qui che si trova l’ingrediente segreto, nel gruppo di persone su cui poggia questo film. Proprio come l’educazione non avviene mai da soli, anche Wonder cambia le sue premesse di film artificialmente lacrimevole grazie ai suoi personaggi. Il cast, di fronte alla cinepresa, ha dimostrato di credere tanto nel messaggio che vogliono mandare. A tal punto da assimilarlo e trasformarlo in sentimenti veri. Non accade spesso.

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