Come sempre nei film in cui Godard pontifica, spazia e parla sulle immagini l’impressione è che molto più dei suoi ragionamenti e delle costruzioni che intende fare (o dei percorsi che vuole costruire a seconda di come si guardano i film), siano i ragionamenti imprevedibili e individuali che scatenano in ogni spettatore le sue associazioni tra immagini e parole ad essere interessanti. Non fa eccezione The Book Of Images, suo ultimo film in cui pare non aver girato nemmeno un secondo, frutto dell’associazione di immagini altre, provenienti da una molteplicità di fonti su cui, ovviamente, regna il cinema.
Il primo dettaglio che salta agli occhi, dovrebbe essere scontato ma come la bellezza delle cose, non lo è mai, è che i tagli che Godard sceglie da film commerciali e d’autore, noti e oscuri, sono meravigliosi, fanno reinnamorare di quell’artificiosa falsità del cinema del novecento, quel senso del fasullo così evidente con gli occhi di oggi e così importante ieri. Ma Godard no...
Fieramente se stesso, Godard con The Book Of Images approda alla videoarte, ma quella di 15 anni fa e sembra riuscire solo in quello che non cerca
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