Il caso Alex Schwazer, la recensione della docuserie

Dentro al caso Alex Schwazer c'è il segreto dei documentari più parziali: la creazione di una storia che ricalca quella dei film

Critico e giornalista cinematografico


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La nostra recensione della serie documentaria sul caso Alex Schwazer, disponibile su Netflix dal 13 aprile

Non ci sono dubbi fin dall’inizio che questo sia un documentario parziale: la versione di Alex Schwazer della storia che lo ha coinvolto prima in un caso di doping e poi nel suo tentativo di tornare all’attività agonistica. È Alex Schwazer a raccontarla e in seconda battuta sono le persone che lo hanno allenato o gli sono state vicino (le fidanzate, i genitori e i giornalisti che lo hanno seguito) a fornire il contesto, corroborare le sue idee e ipotesi e allargare la prospettiva. È la sua squadra nel senso più ampio del termine a stargli vicino e creare il racconto, e poi nel finale anche un villain, cioè un esponente della parte che gli si è opposta in tribunale e lui racconta essergli stata opposta anche nelle trame di palazzo.

Schwazer prima vince una medaglia d’oro nella marcia alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, poi viene trovato positivo al doping prima delle Olimpiadi del 2012 (con tanto di confessione davanti alle videocamere) e infine tenta di tornare all’attività per le Olimpiadi del 2016, venendo però bloccato all’ultimo dalla IAAF (la società che gestisce l’atletica nel mondo). Il caso Alex Schwazer mette insieme la storia completa ma non è un documentario d’inchiesta, non tira fuori nulla di nuovo rispetto a ciò che sa chi abbia seguito tutta la vicenda, semmai mette in scena tutto dalla parte del protagonista. Inclusa la fondamentale componente sentimentale e i travagli psicologici attraversati.

Sapere questo è indispensabile nell’iniziare questa docuserie in 4 parti, che è molto scorrevole per quanto in più punti ripeta le medesime inquadrature, i medesimi droni, le medesime panoramiche e i medesimi establishing shots e in altri abbia un sonoro non proprio chiarissimo. Occorre partire dal presupposto che si sta ascoltando una lunga arringa di difesa solo ogni tanto sporcata dal punto di vista di chi invece sostiene che quella di Schwazer sia la storia di un doppio doping, nel 2012 e nel 2016. Perché solo così si può lasciare da parte (o si può godere, a seconda di come la sì vede) della scoperta di cosa sia successo realmente e ci sì può invece concentrare sui ritratti umani, che sono ciò che riesce meglio alla serie.

C’è Schwazer al centro di tutto, trasfigurato in personaggio dalla dedizione totale, la perfezione atletica a cui avviene la cosa peggiore che possa accadere a uno sportivo, fallire, cadere e finire preda dei metodi per barare. È scritta molto bene la maniera in cui entriamo nella sua testa, nelle paranoie, nel peso della vittoria e nel desiderio di ripetersi. La pressione, gli avversari che poi si sarebbe scoperto erano dopati (i russi), la frustrazione, l’eccitazione delle prestazioni aumentate dal doping, la federazione sempre avversa e poi come in un film sportivo, come in Rocky, il momento della grande purificazione.

La scansione dello storytelling della storia passa attraverso tutti i punti del cinema di sport, l’ascesa, la caduta e poi ricominciare da zero, come una volta, con un allenatore nuovo e metodi anticonvenzionali (dovuti soprattutto al fatto di non poter mettere piede sulle piste per via della condanna). Non c’è un training montage come in Rocky ma ci siamo capiti, il punto è lo stesso: Schwazer torna in forma piegando il corpo grazie alla sua determinazione. Così, facendolo aderire agli eroi del cinema sportivo, Il caso Alex Schwazer ci porta dalla sua parte, ci convince che dopo la caduta c’è un’ascesa alla purezza sportiva, alla correttezza e non possiamo minimamente credere che quello di cui poi è stato accusato sia vero.

Dietro infatti c’è un gran cast di comprimari a partire dall’allenatore Sandro Donati, intervistato nei sotterranei in cui è stato confinato dai vertici sportivi per essere troppo corretto, per la sua lotta al doping senza quartiere, un uomo di carte e analisi, di indagini e intuito infallibile, una specie di mastino che è prima il cattivo della storia (perché dà la caccia a Schwazer) e poi ne diventa il padre surrogato, l’allenatore che lo riporta in vetta. Lui non solo ha il corpo e il volto perfetti per il personaggio, ma anche il tono, la tigna e la durezza per rendere credibile e sostenibile un ritorno a tempi da medaglia d’oro che poi viene negata non potendo partecipare alle Olimpiadi del 2016. Chi non è convinto dalla purezza del protagonista crolla di fronte alla schiena dritta del suo allenatore che su di lui punta tutto.

Tuttavia è un lavoro mediatico più che di ricostruzione. Inizialmente il documentario spiega abbastanza bene cosa sia accaduto a Schwazer dopo la medaglia, la sua esposizione mediatica, il fatto che fosse un personaggio che usciva bene in televisione, bello e simpatico. Quelle stesse qualità, quella stessa affabilità e quella stessa attrattiva sono sfruttate molto bene dal documentario stesso, che trova in lui l’eroe per antonomasia, un puro di cuore corrotto dal mondo esterno, contrapposto ad un sistema politico internazionale marcio fin dalle fondamenta, in cui non ci sì può fidare di nessuno e dominano i cattivi, un sistema che lo lascia solo e un mondo che lo spinge a barare. Una storia così americana che si fatica a vederla ambientata in Italia ma che non è per niente fuori luogo in un documentario su Netflix, buono per tutto il pianeta.

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