La nostra intervista a Stefano Ciammitti, costumista di Io capitano di Matteo Garrone, in concorso al Festival di Venezia 2023

“Sono talmente entusiasta che quasi sono imbarazzato”, dice Stefano Ciammitti, la voce pervasa da una genuina felicità che non ha motivo di celare. Appena rientrato da Venezia dove è stato presentato Io capitano di Matteo Garrone, di cui ha curato i costumi, il giovane artista bolognese non trattiene la gioia per questa esperienza. “È stato rilassante, quasi una vacanza,” ci spiega al telefono. “Da fruitore, frequento il Festival di Venezia da quando ero ragazzino. L’anno scorso ero al Festival con Fulvio Risuleo per Notte Fantasma; ho visto proprio ieri Fulvio, e – riferendosi a Io capitano – mi ha detto: “Dovevi proprio fare questo film.” Io sono garroniano da sempre, e abito tuttora nel quartiere di Estate Romana; per questo e per tanti altri motivi, fare Io capitano è stata l’avventura più bella della mia vita. Ci sono stati momenti di euforia e di felicità totale, alternati a momenti di disperazione e sconforto.”

Più che un film, un’avventura

Riprese durate per quattro mesi, di cui tre mesi di girato pieno, Io capitano è stato “più di un film, è stato un’avventura a tutto tondo” per il costumista. Classe 1989, Ciammitti ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia sotto la guida del premio Oscar Piero Tosi, scomparso nel 2019. “Ciò che mi ha insegnato Tosi è il restare umili rispetto a quel che stai raccontando, rimanendo in ascolto. Già dal primo sopralluogo prima delle riprese, con Matteo, ho iniziato da subito a rubare dalla strada, non solo tramite fotografie, ma anche parlando con le persone del luogo. Il rischio, per noi costumisti, è sempre voler strafare, mettere il proprio ego al proprio posto per primeggiare. La cosa in cui Matteo è riuscito pienamente con Io capitano, secondo me, è fare un passo indietro per cogliere dettagli quasi invisibili, minimali. Di conseguenza, anche io ho applicato questo approccio ai costumi del film.”

Ciammitti prosegue il suo racconto, spiegando come le riprese di Io capitano si siano svolte secondo parametri ben diversi da quelli di un normale set cinematografico. ”Abbiamo girato in ordine cronologico, come Matteo fa quasi sempre. Quindi, il viaggio raccontato nel film corrispondeva al nostro viaggio durante le riprese. Gli attori non avevano mai recitato prima, e non avevano alcuna sceneggiatura; Matteo ogni giorno parlava con loro spiegando le scene che avrebbero interpretato. Anche noi capireparto, quindi, ci siamo adattati a lavorare così.”

Colore e misticismo

A dispetto di quanto si potrebbe pensare dopo questo racconto, la dimensione estetica è sempre stata prioritaria tanto per Garrone quanto per Ciammitti. “Personalmente, ho iniziato a immaginare il film dalle prime sequenze in termini pittorici,” continua il costumista. “Molte persone, a Dakar, non hanno il telefono; era piuttosto difficile concordare appuntamenti, quindi sono letteralmente entrato nelle loro case per ideare i costumi di una delle scene iniziali, quella del sabar [danza tradizionale senegalese, ndr]. Ho scoperto cose sui colori che non avrei potuto scoprire in nessun altro luogo, privilegiando le tinte piene rispetto alle fantasie. Ho fatto uno studio approfondito sui loro tessuti, per evitare di creare un “rumore” tra fantasie discordanti. Con il mio team, abbiamo provato a ricreare una sorta di pittura morandiana, unendo colori puri.”

A proposito della sequenza di ballo presente nel primo atto di Io capitano, Ciammitti ci rivela un retroscena curioso e affascinante: “Il sabar è sia una danza che uno strumento, un tamburo tradizionale; per filmare quella scena – che, al montaggio, è risultata piuttosto breve – abbiamo organizzato una vera e propria festa che è durata tutta una sera. Per la popolazione locale, si tratta di un’ usanza quasi sacra, come la pizzica nel Sud raccontato da De Martino e Di Gianni (con cui ho lavorato in La colonia penale di Kafka, quando ancora ero al Centro Sperimentale). Due delle persone presenti al sabar sono state colte dalle convulsioni ed è stato effettuato un rituale per liberarli dal Maligno. È stata la prima di centinaia di avventure vissute su quel set. Abbiamo anche rischiato di affondare con la nave!”

Lacrime e polvere

Proprio parlando delle scene in alto mare, Ciammitti cita una sequenza – girata al largo della Sicilia – in cui delle persone vengono tirate fuori dalla sala macchine dell’imbarcazione. “È stata una scena davvero emozionante, una specie di strage degli innocenti in cui ci sono solo corpi che vanno gli uni addosso agli altri. Alcuni tra i presenti avevano vissuto davvero una traversata analoga a quella dei personaggi che stavano interpretando. Quando ci sono risse in imbarcazioni così strette, spesso le persone cadono in mare; per questo, ci capitava di trovare alcune delle comparse rannicchiate negli angoli a piangere. Si ricordavano quanto gli era capitato. In un certo senso, questa dinamica accomuna Io capitano a un altro film che amo, The Art of Killing, ma devo dire che Matteo ha lavorato in modo davvero delicato su un tema così spinoso.”

Ciammitti riflette poi sugli insegnamenti professionali tratti da questa esperienza. “Pur proveniendo da un’impostazione in cui il disegno ha un’importanza basilare, il colore è divenuto vero protagonista del mio lavoro, andando a “morire” nel corso del film, sporcandosi e attenuandosi. Ogni giorno, io e la mia assistente Fiordiligi Focardi davamo pennellate di sporco ai vestiti. Eravamo solo noi due, coadiuvati dal nostro aiutante Fattah Qzaibar, che conosceva molto bene il luogo. Giorno dopo giorno, abbiamo aumentato il livello di sporcatura degli abiti, fino ad arrivare alle scene nella prigione in cui le tinte sono totalmente spente.”

Tradizione, commistione

Un’avventura che ha profondamente cambiato tutte le figure coinvolte, a quanto dice Ciammitti. “In alcuni momenti, durante le riprese, abbiamo sentito di essere realmente in pericolo. Inoltre, eravamo in continuo movimento. Io ero in mezzo ai mercati di Dakar non solo per cercare i vestiti sulle bancarelle, ma anche sulle persone, che mi regalavano ciò che indossavano in cambio di indumenti nuovi. Le mie magliette preferite hanno un livello di usura che nessun tipo di invecchiamento posticcio avrebbe raggiunto. Con Matteo facevamo a gara a chi trovava le magliette più belle e convincenti, davanti agli occhi delle persone che erano perplesse e divertite. Ci avranno presi per pazzi, perché ci emozionavamo per una scoloritura!”

Al di là del lavoro sul posto, come per ogni grande opera, Io capitano ha richiesto una lunga preparazione a monte. “Prima di partire per il primo sopralluogo, con Matteo abbiamo fatto un lavoro maniacale sulla cultura del luogo.” Riferendosi a una scena onirica in cui compare una figura alata, Ciammitti spiega: “Matteo aveva questa idea cristiana e occidentale dell’angelo, che abbiamo pensato di unire alle pitture della tradizione tribale del posto. Abbiamo mescolato l’immaginario europeo a dei materiali poveri, tant’è che le ali di quel personaggio sono di paglia. Prima di scegliere la versione finale, ho creato 25 varianti dell’angelo. È stato un lavoro molto meticoloso, esteticamente accurato, come anche quello legato alla prigione libica: studiando le testimonianze agghiaccianti legate a quei luoghi, mi sono reso conto di quanto poco si sappia di certi aspetti e di certe situazioni.”

Il volto al centro

A ribadire la stretta connessione tra il lavoro del regista e quello del costumista, Ciammitti prosegue parlando del casting: ”Una delle cose a cui tengo di più sono le facce degli attori. Se hanno dei volti convincenti, basta poco per renderli perfettamente credibili. Matteo, prima di scegliere una faccia – per quanto secondaria – ne vede a centinaia. Ogni volta che guardavo una figurazione scelta da lui, restavo affascinato da quanto fosse perfetta. Inoltre, sono stato anche incoraggiato a usare accessori che spesso remano contro il nostro lavoro, come occhiali o cappelli, per creare personaggi grotteschi.”

Un punto di vista che Ciammitti ha maturato negli anni, ma che affonda le radici nella sua formazione. “Credo che questo approccio, che mette il viso dell’attore al centro di tutto, faccia davvero la differenza,” continua il costumista. “Già ai tempi del Centro Sperimentale, andavo in giro a fotografare volti interessanti, che poi ridisegnavo con abiti magari settecenteschi. Deriva dagli insegnamenti di Tosi, e anche dalla visione che condivideva con autori come Fellini.”

Ostentazione e speranza

Con i protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall, Ciammitti ha fatto un lavoro di ricerca condivisa. “Sono andato a casa di entrambi, per capire come si vestissero e quale fossero il loro gusto, per capire quale fosse l’estetica di un adolescente di Dakar. Ho frequentato molto il mercato del luogo – meraviglioso, il più caotico che abbia mai visto, pieno di megafoni che emettono messaggi a ripetizione con un effetto di cicalìo cacofonico – e ci sono tornato con entrambi gli attori per capire cosa gli sarebbe piaciuto indossare. Alla fine, abbiamo scelto due tute in ciniglia, cosparse di loghi assemblati in modo assurdo. Lì c’è questo gusto particolare, in cui espongono marchi europei come simbolo di quella ricchezza a cui ambiscono. Ti trovi di fronte delle tute che hanno un sacco di marchi, a volte di squadre rivali. Esibiscono i simboli dell’occidente in modo sfrenato, mostrano la loro volontà di benessere, e abbiamo voluto raccontarla per amor di verità.”

Un’odissea intensa dal punto di vista mentale e fisico, che ha portato Ciammitti a perdere ben 15 chili nel corso delle riprese di Io capitano. A giudicare dal suo racconto, siamo certi che il bagaglio che ha riportato a casa vada oltre una mera voce su un curriculum già ricco di voci rilevanti; in trepidante attesa di vedere messi in atto gli insegnamenti tratti da questa esperienza, non possiamo che rallegrarci di fronte al fresco smalto che una personalità come quella di Ciammitti conferisce al mondo del cinema italiano, degno erede dei maestri che lo hanno guidato.

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