La nostra intervista a Paola Cortellesi su C’è ancora domani, tra l’eredità del neorealismo rosa e la quotidianità della violenza sulle donne

Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, C’è ancora domani è l’esordio alla regia di Paola Cortellesi. Già a lungo sceneggiatrice, Cortellesi porta i temi cari del suo cinema in un film ambientato nella Roma del 1946 dove esplora, tra dramma e commedia (e uno stile para-neorealista), la condizione femminile e la quotidianità degli abusi. Abbiamo parlato con lei dell’origine di questa idea, dell’eredità di un certo immaginario cinematografico e dell’importanza, ancora oggi, di riflettere su certi temi.

Nel film il passato da una parte è rappresentato come un passato cinematografico che viene omaggiato nella forma (il neorealismo, tutta la parte stilistica), dall’altra è come se volessi mostrare “alla luce del sole” ciò che in quel cinema e in quella società era latente, ovvero l’ideologia patriarcale. Il tuo intento era rileggere con onestà storica quell’immaginario?

“No, non era questo. La scelta di quel cinema e del bianco e nero, devo essere sincera, non è stata una scelta stilistica ma una scelta istintiva. Non è un racconto biografico delle mie nonne, ma in quei racconti che mi facevano da ragazzina, in cui c’erano la piazza, le famiglie che convogliavano nel cortile, c’erano racconti molto simili a questa Delia. “Eh le è andata male, ha beccato quello un po’ così…”. Tutti sapevano tutto di tutti ma nessuno si scandalizzava così tanto all’epoca, non era vissuta come una tragedia. E io queste storie me le sono immaginate in bianco e nero perché conoscevo quel cinema là, lo vedevo da ragazzina in tv e quindi avevo negli occhi quel tipo di cinema là. latente rispetto al patriarcato c’era la nostra cultura, e nel cinema dell’epoca c’era quella cultura là, ma perché quella era la normalità, era un dato di fatto”.

Io ci ho visto Scola, De Sica, ma anche e soprattutto le storie di Suso Cecchi d’Amico (L’onorevole Angelina). Tu avevi in mente dei film in particolare?

“Mi piaceva rifarmi a tutto il neorealismo e soprattutto al neorealismo rosa, che ho amato molto , perché quando è arrivato dopo il cinema dei telefoni bianchi (dove era tutto patinato, c’era la propaganda eccetera) è stato una rivoluzione: trattava di personaggi reali e realistici, che parlavano sporco, in dialetto, che non erano doppiati. Il neorealismo di Ladri di biciclette o di Roma città aperta raccontava delle cose molto, molto drammatiche. Poi è arrivato il filone rosa dove c’erano questi personaggi realistici, ritratti nelle loro miserie quotidiane, che però erano su uno sfondo romantico. C’è ancora domani ha un tema drammatico, anzi direi tragico, che però mi piaceva alternare secondo due registri – proprio come faceva quel cinema là. È un film contemporaneo ambientato nel passato. Come hai detto tu: era quel presente lì della storia, e a vederlo adesso lo percepisci con un certo distacco. Poi però quando a un certo punto ci vedi qualcosa di contemporaneo ti sale proprio quella consapevolezza”.

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Per quanto riguarda il lavoro di regia, di messa in scena: hai lavorato prima di storyboard, pensando molto bene le scene, o hai più seguito l’istinto come dicevi prima?

“L’istinto c’era nella voglia di raccontare determinate cose, dopodiché tutto il resto è stato pensato e calibrato al millimetro. Però non l’ho trovato mai difficile, perché poi quello è il linguaggio che conosco io, non lo so magari per un altro è difficile, dove per me è difficile un’altra cosa che sembra facile, è ovvio. Però sì abbiamo lavorato alla sceneggiatura veramente al millimetro. Per esempio, quello di Valerio Mastandrea, che è magnifico, è un personaggio molto difficile da interpretare, perché doveva rappresentare un uomo terribile, di una durezza credibile. Però mi piaceva moltissimo che fosse anche stupido, un idiota, perché poi deridere e non fare l’apologia dei cattivi nella loro mostruosità ci consente in qualche modo di esorcizzare quelle figure. E comunque è bello deridere i cattivi!”

È la commedia amara!

“Sì, ma poi mi sembra la forma più potente di reazione nei confronti della durezza e della violenza. E poi è un personaggio inserito nel quotidiano, quindi se avessimo dipinto un mostro, un orco anche fisicamente, forse ci si sarebbe sentiti un po’ più distaccati, perché un orco non è detto che lo si incontri nella vita – è una cosa che capita una volta ogni tanto, a qualcuno (purtroppo). Invece inserirlo in un contesto quotidiano credo sia molto più spaventoso, perché quella era la vita che facevano le donne con degli uomini “normali”, che non hanno l’aspetto di un orco cattivo ma che invece in qualche forma lo erano eccome, continuativamente, quotidianamente. Per me era più forte.

Oltre a ciò ho lavorato molto sulla preparazione. Abbiamo fatto 12 settimane di preparazione, 3 settimane di prove teatrali con gli attori dal momento che io ero interprete insieme a loro. Questo è servito naturalmente per decidere prima e dare le indicazioni che volevo dare, ma anche per ricevere i loro suggerimenti, per capire cosa avremmo potuto migliorare, cambiare, aggiungere o togliere dai nostri scambi. Tutto questo poi è stato messo a copione, quindi non è stato più cambiato, così poi sul set avrei avuto più agio nell’occuparmi di un altro milione di cose che bisogna fare su un set da regista piuttosto che preoccuparmi anche della mia interpretazione, che invece era stata già sviscerata insieme a quella degli altri”.

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Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi in C’è ancora domani

A proposito di questa quotidianità della violenza di cui stiamo parlando, qui si tratta di violenza psicologica ma anche fisica, e tu l’hai trattata usando delle parti musicali, con una forma di edulcorazione stilistica. Come mai?

“I momenti musicali mi hanno suggerito le scene, perché mi piaceva raccontare questa violenza in tutta la sua durezza, ma non volevo farlo in un modo voyeuristico… non volevo che fosse l’andare a vedere, l’”adesso vediamo come la picchia lui”, perché non volevo che quella cosa si mangiasse la gravità di quello che sta accadendo. È infinitamente più grave una routine che lei si racconta in questo modo coreografico, piuttosto che una scena violenta esplicita, a cui purtroppo poi siamo anche molto abituati. È proprio guardare l’incidente per strada. Quella roba lì non mi piace. Mi piace invece entrare nella gravità concettuale di quello che sta accadendo”. La canzone “Nessuno” l’abbiamo ascoltata gioiosa cantata da Mina negli anni ‘50, una canzone che parla d’amore, di eternità, di una promessa d’amore gioiosa; invece nella versione di Petra Magoni c’erano delle note molto dolorose e questa eternità come la canta Petra sembrava una condanna: era, una condanna. L’eternità vissuta come promessa d’amore è un conto, ma vissuta con quell’essere immondo lì è veramente una maledizione. E quindi volevo dare il senso di questa maledizione, ed è stata la canzone che mi ha ispirato. Lì come sul finale, che sicuramente non raccontiamo, dove è la canzone di Daniele Silvestri a fare questa cosa”.

Quindi la dissonanza tra la forma e quello che racconta, che è più immediato e non voyeuristico o pietistico.

Sì, e non pietistico. Il pietistico è un’altra cosa che mi fa rabbrividire, come la retorica. Non mi piace la retorica, ma nemmeno nella scena d’amore mi interessa la retorica, tant’è che poi ho sporcato i denti di cioccolato e siamo orribili. Siamo orrendi e ci facciamo una bella risata, perché le scene d’amore esagerate non esistono nella realtà, solo nei sogni delle fiabe di principesse che ci hanno raccontato, principesse tra l’altro che sposano il principe senza nemmeno esserci mai usciti a cena… sembra troppo repentino tutto, solo perché è un principe!”.

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Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in una scena del film

Anche la recitazione mi sembra un elemento di modernità e di annullamento della distanza: sei Delia ma sei anche la Paola Cortellesi del presente, quella che lo spettatore riconosce. È stata una scelta consapevole?

“Non è stata una scelta, però è interessante il tuo punto di vista. Io la percezione esterna proprio non ce l’ho, quindi non posso metterla in campo, non posso tenerla in considerazione. Io evito sempre di essere assertiva, proprio per indole, perché io faccio il mio lavoro, poi me ne sto in casa, non faccio altro. E un po’ perché penso che sia giusto, ma questo per un’anzianità come mia galoppante [ride, ndr.]. Io penso che sia sbagliato per un interprete volersi mostrare per come si è: un interprete deve essere un foglio bianco, una pagina su cui tutti scrivono le storie. Altrimenti è difficile credergli.er esempio una cosa che ho tenuto a fare è stata scegliere gli attori generici e le comparse. Ci troviamo più volte nelle file con le comparse, in scene di massa, e ho fatto caso a una cosa: io sono piuttosto alta, un metro e 75, non sono un gigante, però sono una donna alta. Nella scelta delle comparse ho scelto che fossero intorno a me tutte persone che all’epoca probabilmente non esistevano, perché le donne erano più piccole e anche gli uomini, però la verità è che intorno a me, nel film, ci sono donne di un metro e 80, perché mi piaceva nel confronto aiutare un certo tipo di fragilità che probabilmente non è abbinata a me, a Paola, ma sicuramente a quella donna che interpreto sì, e questo mi piaceva che fosse anche una questione fisica. Una percezione anche di maggiore fragilità, così a un primo occhio. Naturalmente essere più piccole di statura non ha niente a che vedere con l’essere più piccoli né psicologicamente, né a livello di forza e determinazione, assolutamente, però in questo caso dovendo tradurre anche degli stati d’animo per immagini, questo è stato un aiuto che ho voluto darmi”.

Ho capito, quindi anche per non farla spiccare visivamente rispetto agli altri.

“Sì, non volevo essere come sono, cioè un po’ più alta della media. Volevo essere se possibile nella media, un po’ più piccolina”.

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Nei film che hai già coscritto con Calenda e Andreotti, penso per esempio a Scusate se esisto!, a Come un gatto in tangenziale, a Ma cosa ci dice il cervello, hai sempre creato personaggi femminili con un desiderio frustrato di vivere una certa vita e che poi trovano una redenzione tramite una condivisione. cosa ha significato per te scrivere e dirigere questo film e raccontare questa storia in particolare?

“Ovviamente ne sentivo la necessità. Come hai giustamente notato alla fine le istanze sono sempre quelle, nel presente o nel passato. Volevo fare un racconto che tenesse conto delle storie che ho sentito crescendo, quelle che mi hanno raccontato e che probabilmente mi hanno influenzato nella crescita, di quello che ho pensato di queste storie e di questa condizione femminile. Delle discriminazioni sul lavoro ne abbiamo parlato in altri film e adesso mi piaceva raccontarne un po’ l’origine (ma l’origine non è negli anni 40, è millenaria). Avevo voglia di raccontare qualcosa che celebrasse le donne, le nonne e le bisnonne che nelle famiglie – come è capitato nella mia – hanno costruito la coscienza e il percorso sociale del Paese. Con i propri racconti, ma anche con quello che hanno fatto nella vita. Che adesso avrebbe dell’incredibile, perché ci sarebbe un welfare dedicato se una donna dovesse crescere 5-6 figli lavorando. È quello che capita anche oggi a molte donne, che non vengono mai ringraziate per questo. Quelle donne lì però, a differenza delle donne contemporanee che si rendono conto delle ingiustizie legate a questo ruolo, la consideravano una cosa naturale. Non vedevano l’eccezionalità delle vite che loro hanno vissuto”.

Parleresti, riguardo le donne di quell’epoca, di una certa inconsapevolezza?

“Totale inconsapevolezza! Io ho sentito dire “ma che capisco io”, “ma che ne so io” a donne che considero straordinarie, che hanno fatto cose incredibili per cui non sono mai state ringraziate o tenute in considerazione. Ma loro stesse si sono considerate sempre delle nullità, perché sono state educate così da bambine, quello doveva essere il loro ruolo. A me piaceva, attraverso questo racconto, fare un percorso di consapevolezza – che non è un percorso di consapevolezza di una donna che ha gli strumenti per farlo. Penso alle grandi donne dell’epoca che, altro che consapevolezza, hanno combattuto perché noi avessimo dei diritti. Penso a Nilde Iotti, a Teresa Noce, alle staffette partigiane che poi hanno fatto politica, che poi hanno scritto la Costituzione. La donna che invece volevo raccontare io ha una consapevolezza mossa da un istinto naturale e non da una preparazione sull’argomento. Un istinto naturale che poi è molto semplicemente l’amore per una figlia, un amore materno. È questo che le fa capire che no, deve cambiare qualcosa, e in questo momento tocca a lei”.

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Ora che hai esordito alla regia, che percorso vorresti fare come autrice?

“Come autrice il prossimo progetto che verrà, verrà tra tanto tempo penso, perché adesso sto cominciando la maratona di presentazione di questo film.Certamente vorrò continuare a fare l’autrice, perché è un mestiere bello. Per me non è un nuovo mestiere, è un altro occhio su questo mestiere, che ho conosciuto per tanto tempo da interprete e ormai, visto che sono alla soglia dei 50 anni, l’ho conosciuto in tanti modi. Mi piaceva affrontarlo e mi è piaciuto come lo abbiamo affrontato – e dico “lo abbiamo” non perché parli di me al plurale tipo il Divino Otelma… che se ci diamo del noi, li è pericolosissimo, è l’inizio della fine! [ride, ndr.] No ma per dire che poi ogni cosa si fa veramente in squadra, la squadra del cinema è una squadra incredibile, numerosissima, fatta di centinaia di persone, ognuno con una competenza e tutti dall’inizio e nelle varie fasi, ognuno con il suo specifico, siamo coinvolti. Quindi quel “noi” è proprio perché ho amore, rispetto, riconoscenza, per tutta la squadra che ha lavorato a questo film”.

C’è ancora domani sarà in sala a partire da giovedì 26 ottobre.

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