Xavier Giannoli ha presentato a Venezia 72 un film dai tratti comici quasi irresistibile. Si intitola Marguerite (guarda la videorecensione) e parla di una donna dell’alta società ossessionata dall’Opera ma senza un briciolo di talento. Non solo non sa cantare ma quando prova a farlo… il risultato è semplicemente orribile. Giannoli ha ambientato il film nella Francia degli anni ’20 e si è ispirato alla statunitense Florence Foster Jenkins. Grandi risate al Lido e una parabola immorale sulla crudeltà di chi circonda una creatura totalmente priva di talento ma sincera nella sua ricerca di libertà espressiva. Giannoli, già presente in Concorso a Venezia con Superstar nel 2012 e a Cannes con À l’origine nel 2009, ci regala una commedia intelligente e cattivella sugli sfruttatori attorno alla sua eroina Marguerite, interpretata da una calibratissima Catherine Frot. I personaggi più inquietanti che la blandiscono e ingannano sono un critico disonesto, un dadaista e un misterioso maggiordomo tuttofare. Ecco il nostro incontro in esclusiva con il regista di origini corse (e genovesi) classe 1970.

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Come hai incontrato la storia di Florence Foster Jenkins?
Sentendola cantare. Ormai è una vecchia amica perché dieci anni fa la sentii per la prima volta in radio. Mi resi conto che era un pezzo di repertorio e immediatamente mi misi a ridere come un pazzo. Ma dopo divenne subito qualcosa di più che divertente e volevo scoprire perché. Dopo aver scoperto che si chiamava Florence Foster Jenkins feci un viaggio a New York per documentarmi. All’epoca ero ancora un giornalista. Anche ora che sono un regista mi comporto come un giornalista investigativo. Dovevo capire chi era. Trovai foto, articoli di giornali e trovai la fotografia della donna con le ali. Uno strano angelo. Sentii che c’era dentro una grande storia e un grande mistero.

Perché hai deciso di fare in modo che la tua Florence Foster Jenkins diventasse in Francia l’ariete usato da un poeta dadaista per distruggere l’arte borghese?
Il poeta dadaista è ispirato chiaramente a Tristan Tzara ed ecco perché ho deciso di dargli l’accento straniero. C’è una meravigliosa battuta che Jean Cocteau fece a Tzara un giorno per prenderlo in giro ed è: “Il vero dada è contro il dada”. Ho deciso di mettere il dadaismo dentro il film perché non volevo fare un biopic su Florence. Mi serviva una distanza e quindi ho pensato che quel momento storico potesse essere interessante. La Parigi degli anni ’20 è un grande periodo ma non volevo fare come il Woody Allen di Midnight in Paris. Il dadaismo era perfetto per mettere un movimento di rottura in sintonia con una donna che voleva la libertà. Marguerite vuole abbandonare il suo vecchio mondo per trovarne uno nuovo. Ecco perché si sposa bene con l’impeto dadaista. Gli anni ’20 sono essenziali anche perché in questo modo la mia Marguerite non può sentire la sua voce e quindi la bugia attorno a lei è possibile senza che lei riesca ad ascoltarsi mai. Ma alla fine del film inserisco la prima possibilità che lei ha di potersi ascoltare grazie alle innovazioni tecnologiche legate al periodo.

Chi è il maggiordomo? Chi è questa figura così affascinante attraverso il cui occhio spietato vediamo l’ultima immagine di Marguerite?
Lui è il diavolo. E’ un attore belga alla sua prima apparizione cinematografica. Lui lo considero il fratello più piccolo di Eric Von Stroheim in Viale del Tramonto (1950). La relazione tra lui e Marguerite è completamente folle. Hanno ognuno bisogno dell’altro. E’ una scabrosa storia d’amore e riguarda molto la crudeltà dell’arte. Lui è un artista e non so se con la sua arte la ucciderà o la salverà ma di lui mi piace questo sguardo gelido che un creativo deve sempre avere nei confronti del suo soggetto. Il loro rapporto è il più complesso di tutto il film. Sono un uomo e una donna, una modella e un fotografo, un soggetto e un pittore. Lui la ama ma allo stesso tempo la odia e non vede l’ora di lasciare la casa. Mi sembra importantissimo tutto il cinema di Max Ophuls sia per quanto riguarda la relazione tra loro due che per quanto riguarda tutto l’impianto che ho voluto dare a Marguerite. Di Ophuls ho voluto citare soprattutto la gentilezza e spietatezza classista di Gioielli di Madame de … (1953), un film contemporaneamente umano e gelido sui rapporti di classe e violenze sotterranee tra esseri umani.

Che tipo di critico cinematografico eri Xavier?
Un tipo divertente. Spiritoso nella scrittura. Venivo dall’università e andai a lavorare a L’Express come stage post laurea. Arrivai a 22 anni nella redazione. Il primo giorno che mi presentai erano le 9 del mattino… e la redazione era vuota. Trovai appese le proiezioni stampa della settimana a Parigi e mi misi a leggere con attenzione tutti gli orari dei film. Dietro di me sentii una voce che mi disse: “Se ti accingi a diventare il critico cinematografico del giornale ti do un consiglio: non vedere mai un film. Perché la visione di un film… potrebbe poi influenzare il tuo giudizio”. E’ una delle battute più divertenti che abbia mai sentito nella mia vita! Mio padre era un giornalista. Quindi forse era un mestiere che avevo nel sangue. Ma lui era ossessionato dalla realtà mentre io lavoro sulla finzione… ma partendo sempre dalla realtà.

 

 

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