C’è un cliché della fantascienza moderna. Quando accade un evento sconvolgente di qualsiasi tipo, un contatto alieno, un meteorite che minaccia di estinguere ogni vita sulla terra, un disastro idrogeologico, sono i media a raccontarlo per primi al protagonista. Spessissimo chi è chiamato a salvare la situazione vede il pericolo per la prima volta attraverso le informazioni date da qualcun altro, un telegiornale, una trasmissione radio o un informatore. In Arrival accade la stessa cosa, ma le inquadrature con cui normalmente viene ripresa la scena sono ribaltate. 

Louise Banks (Amy Adams) arriva in università per tenere la sua lezione di linguistica. C’è movimento intorno a lei nei corridoi mentre la classe è deserta. I pochi presenti sono distratti dalle notifiche sui cellulari. Chiedono alla professoressa di poter ascoltare le news. Lei (si badi bene a questi gesti) sposta una parete-lavagna che rivela un televisore posto dietro. Lo accende e resta incantata di fronte alle immagini. Il notiziario descrive l’arrivo di alcuni oggetti alieni in varie parti del mondo. Mentre si elencano le informazioni – necessarie per iniziare il film – siamo in una sorta di soggettiva dello schermo. Denis Villeneuve ci mette dentro il televisore. Noi guardiamo Louise che riceve attonita immagini che noi non vediamo. Mentre ci preclude per ora il godimento di una visione meravigliosa (non è questo il senso stesso del cinema?) la scena ci spiega chi è veramente la dottoressa Banks. È una spettatrice. Noi siamo gli alieni che, poco dopo, la guarderanno oltre lo schermo.

Cosa guarda Arrival?

Pochi film possono essere descritti con una forma geometrica. Arrival invece è un cerchio. Questa forma attraversa tridimensionalmente tutto il materiale narrativo. La struttura degli eventi enunciata ad anello, con un inizio che corrisponde ad una fine, è anche il modo di pensare il tempo e il linguaggio degli alieni. Il cerchio è proiettato su uno schermo bianco, una parete solo apparentemente divisoria che invece è essenziale al linguaggio. Senza di lei come ostacolo non può esserci contatto (l’opposto di come noi intendiamo la buona comunicazione, trasmissione senza ostacoli).

Senza perdersi in aggettivi superlativi, che già sono stati tributati a ragione al film, Arrival va guardato con la gratitudine per chi ha riportato la fantascienza al centro dell’innovazione del pensiero cinematografico. È qualcosa di più del semplice mezzo per inventare nuovi effetti speciali. Villeneuve tenta infatti di andare nei territori intellettuali esplorati da Kubrick e Tarkovskij (cognomi non citati alla leggera). Fa della materia più commerciale possibile, ovvero l’attrattiva di alieni, astronavi e possibile guerra planetaria, una parabola filosofica ambiziosissima. 

Va poi oltre. Scrive per gli umani i dilemmi che ben conosciamo: fede contro scienza, dialogo emotivo contro linguaggio numerico. Per gli alieni invece inventa da zero un modo di pensare. Su quello crea poi un linguaggio che sia coerente e non solo: la grammatica è infatti l’esatta immagine di come funziona la loro realtà. Come a dire: le parole sono pensiero, l’organizzazione del pensiero plasma la percezione dell’esistente. Così su quella forma, il cerchio appunto, il regista modella l’intero film. Sceneggiatura, messa in scena e simbologia sono allineate per ricalcare la logica degli alieni.

Chi, dopo aver visto in questo modo Arrival, può ancora sostenere che il film si svolga dalla parte dello schermo degli umani? Il film è come la TV che guarda Louise. Noi siamo al suo interno e osserviamo lei.

Arrival

L’incontro con il cinema è tattile

Arrival è fatto di pareti divisorie (la prima immagine sono, non a caso, delle finestre). Si ricorda maggiormente quella che separa gli umani dagli alieni, lo schermo bianco cinematografico. In realtà ce n’è una ancora più intrigante: la parete nera dell’astronave.

La squadra di esplorazione viene portata vicino all’imponente struttura che si staglia squarciando il cielo come una tela di Lucio Fontana. La prima reazione è irrazionale. La superficie potrebbe essere pericolosa, invece tutti alzano le mani per toccarla. Poi entrano dentro, nel nero, verso uno schermo di luce. Questo è il cinema.

Louise Banks, Ian Donnelly egli altri entrano in una sala. Il primo desiderio è di toccare, di immergersi con tutti i sensi. Un buon film funziona in questo modo: attiva una percezione sinestetica, ci fa immaginare odori, toccare superfici, sentire caldo e freddo attraverso la vista e i suoni. Le ombre proiettate sono indifferenti a chi hanno davanti, eppure le percepiamo come se fossero lì solo per noi anche se siamo circondati da persone.

Cosa c’è oltre lo schermo?

Si possono vedere due cose su quella parete: noi stessi o un altro. Ci si riconosce cioè su quello che accade nello schermo o lo si osserva con distacco e alterità. L’alieno è il diverso per eccellenza. Gli scienziati fanno esperienza di qualcosa di mai percepito prima. Al posto che fare paura però questo contatto attira la curiosità umana. I siti in cui sono atterrati gli eptapodi rischia addirittura di diventare una meta turistica, proprio quel luogo da cui potrebbe partire un’invasione letale. Il desiderio di conoscenza è più forte dell’auto preservazione. Per Villeneuve il cinema attrae allo stesso modo perché promette che non si può vedere altrove. Per lui il film deve appunto squarciare l’esistente per andare un po’ oltre questo velo.

La spettatrice-interprete ha un compito al limite dell’impossibile, che però le riesce bene: decifrare il nuovo linguaggio comunicato con forme e suoni. Esattamente quello che dobbiamo fare noi, seduti in sala, ad ogni proiezione. Ogni regista parla una lingua diversa con immagini, simboli e significati propri. Nel caso di Arrival l’inizio è un grande enigma che risolveremo solo alla fine. È nell’ultima sequenza che Villeneuve ci dà la chiave grammaticale per decifrare l’intero film.

Più Louise Banks comprende la lingua, più lo schermo si assottiglia, fino ad immergerla, a coinvolgerla fisicamente. A questo punto è lei, osservatrice, che si proietta all’interno. Come Bergman in Persona fotografava il desiderio di toccare lo schermo, anche Villeneuve filma l’attrazione della fantasia a penetrare questa barriera. Conoscere l’altro, l’ombra che parla, è un po’ conoscere se stessi.

Arrival

Arrival ha fiducia nel cinema

Una storia, o meglio un incontro, può cambiare la vita. Noi spettatori, come si diceva, siamo nello schermo. Abbiamo più informazioni di Louise Banks perché conosciamo la sua fine e il suo inizio. Possiamo inoltre rivedere da capo quante volte lo desideriamo. Per tutto il film la vediamo che guarda, ascolta, legge e interpreta. Solo negli ultimi istanti anche lei supera la soglia e viene dalla nostra parte. Per un momento noi e il personaggio abbiamo le stesse informazioni, con lo sguardo rivolto nella stessa direzione.

La fantasia che buca lo schermo, crea un incontro, un parallelo, tra due vite. Una “reale” e una “diversa”. Quando esce da questo dialogo la spettatrice Louise ha una nuova consapevolezza. Ha adottato una nuova forma geometrica per comprendere la sua esistenza: la linea retta si è piegata in un cerchio. Il messaggio portato dalla linguista ha salvato il mondo da un attacco imminente e autodistruttivo. Ma il cinema ha fatto in lei qualcosa di ancora più potente.

Come racconta il primo titolo scelto per il racconto di Ted Chiang, Story of Your Life, colei che era stata incaricata di decifrare il messaggio altrui si è trovata di fronte a uno schermo che le ha raccontato la storia della sua vita.

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