La storia dello sciopero degli attori e sceneggiatori negli anni ’60

Ieri il problema, tra tanti altri problemi, era la TV. Oggi il problema, tra tanti altri problemi, è la TV. Certo, nel frattempo c’è stato un cambio di formato, di trasmissione, di fruizione, si è passati da quella lineare a quella non lineare, ma la sostanza resta la stessa. Ieri c’era il post ’48, la sentenza Paramount che rompeva l’integrazione verticale dell’industria (di fatto chi faceva i film poteva anche distribuirli e mostrarli nelle proprie sale, poi non più), oggi c’è un mercato in rapida transizione, con dati di ascolto segreti e una grande corsa agli abbonamenti. In mezzo, a fare da costante tra i due mondi, i diritti residuali. Sono loro che accomunano i due più grandi scioperi congiunti che l’industria hollywoodiana abbia mai visto.

I due principali sindacati, quello degli scrittori, Writers Guild of America (WGA), e degli attori Screen Actors Guild (SAG), hanno sperimentato i picchetti congiunti nel 1960. Oggi tutti guardano a quello sciopero per capire come potrebbe andare questo.

Lo sciopero degli attori e degli sceneggiatori, non solo analogie

Il passato può aiutare a prevedere come andranno a finire le cose oggi. Bisogna però tenere conto di alcune importanti differenze: nel 1959 il clima nei media audiovisivi era bollente. Gli scandali ai Quiz Show avevano movimentato la politica, i brani musicali passati in radio a seguito di pagamento nascosto avevano originato un’indagine del dipartimento di giustizia. Nel mentre il cinema si leccava le ferite delle conseguenze della sentenza Paramount e della diffusione capillare dei dispositivi televisivi nelle case. C’era aria di conflitto, gran voglia di sciopero. 

Un po’di numeri. La SAG contava 14.000 iscritti. Oggi SAG-AFTRA ne ha 160.000. Gli accordi avevano un arco di circa sei anni, ora lo standard è di tre anni. Per negoziare i contratti cinema e televisione avevano due riferimenti distinti: la Association of Motion Picture Producers, che rappresentava gli studio, la Alliance of Television Film Producers, per quanto riguarda il piccolo schermo. Nei successivi anni il flusso di contratti a Hollywood, sia per il grande che per il piccolo schermo, è passato sotto la mano dell’Alliance of Motion Picture and Television Producers (AMPTP). 

La rappresentanza dei lavoratori e degli studio era meno sistematica. I sindacati tendevano a trovare accordi con i singoli studio, non con un ente che li rappresentasse tutti. Lo sciopero del 1960 ad esempio coinvolse SAG contro i principali produttori. Tranne la Universal, con cui erano già venuti a patti. Quello contro la televisione iniziò dopo quello del cinema. Una durata di 155 giorni per il primo, contro 147 del secondo. 

Riguardo al 2023: ha fatto impressione il recente report di Deadline in cui si citava come strategia degli studi di Hollywood per vincere il braccio di ferro, quello di tirare la contrattazione così a lungo da far esaurire i risparmi agli scioperanti. Bob Iger, poi, ha gettato benzina sul fuoco puntando il dito contro quelle che, per lui, erano richieste poco realistiche.  

bob iger sciopero attori e sceneggiatori

L’immagine di Iger è oggi simile a quella di Spyros Skouras, all’epoca presidente della 20th Century Fox che promise di intraprendere “una lotta all’ultimo sangue” e minacciò di spostare lo studio in Europa. Fu in seguito accusato dalla WGA di aver lasciato fare le contrattazioni ai sottoposti, senza presentarsi ai tavoli e senza fare nulla per impedire lo sciopero. 

Oggi il volto pubblico che cerca di rompere il muro è Fran Drescher, nel 1960 era Ronald Reagan, insieme a Janet Leigh e Tony Curtis che mettevano a disposizione la casa per le riunioni. In entrambi gli scioperi sono stati fondamentali i volti noti del grande schermo a fianco dei lavoratori meno celebri.

Cosa si chiedeva nello sciopero del 1960?

Più o meno le richieste erano molto simili alle attuali. Non c’era l’Intelligenza Artificiale di mezzo, ma si parlava di diritti residuali, sia per gli attori che per gli sceneggiatori. Compensazioni per i lavoratori in caso di ulteriori sfruttamenti del prodotto cinematografico. Chiedevano un aumento della ridistribuzione dei profitti provenienti dai passaggi in TV e dalle vendite dei diritti alle emittenti, trovando nuove formule per il calcolo dei pagamenti. Insieme a questo si richiedevano ritocchi alle pensioni e alle assicurazioni sanitarie, oltre a migliori condizioni lavorative in generale.

Lo sciopero della SAG si limitò all’aspetto cinematografico. I registi restarono in disparte. Ronald Regan invece andò al centro affinando in pochi mesi le sue doti politiche e spianandosi la strada verso un consenso sia all’interno del settore che pubblico. 

La WGA fece più fatica ad ottenere ciò che desiderava, per via di una minore capacità contrattuale e per il minore impatto che avevano i suoi membri. Gli attori invece marciarono compatti con uno stuolo di star, non senza alcune divisioni interne. L’accusa era di voler bloccare l’industria e quindi mettere a rischio tutto il comparto e tutti gli altri lavoratori senza averne il diritto.

Dopo che gli attori sancirono un accordo, gli sceneggiatori si trovavano in uno stallo fatto di accordi rigettati uno dopo l’altro. La situazione fu sbloccata da Lew Wasserman, dietro le quinte che portò il 20 maggio 1960 a quello che fu definito “il più grande passo in avanti nella storia della scrittura a Hollywood”

Cosa ottennero e come potrà finire lo sciopero del 2023?

Il lungo sciopero portò a riscrivere le regole con cui valutare i diritti residuali e a importanti ritocchi dei contratti. Per i film dal 1948 al 1960 agli sceneggiatori spettava il 5% del guadagno totale ricavato. Ci furono ulteriori compensazioni dirette atte a coprire quanto non corrisposto in quel lasso di tempo. Costò agli studi pagamenti per 2.6 milioni di dollari. Per le produzioni televisive post-1960 l’accordo fu sul 2% del guadagno totale. 

Oggi questi accordi si sono evoluti e adeguati al tempo corrente, ma quello che si va a toccare è grossomodo lo stesso problema affrontato all’epoca. Difficile capire come andrà a finire, se si replicheranno gli schemi del passato, ma soprattutto quando finirà (probabilmente non presto). 

Se la storia insegna qualcosa, in questo caso è l’importanza della compattezza per un periodo di tempo prolungato e la capacità dei leader di avere un impatto ampio. Occorre saper mobilitare l’opinione pubblica e in parallelo lavorare dietro le quinte. La sfida si giocherà insomma sul tempo, sulla capacità a sopportare il logoramento, e su quella di remare verso un’unica direzione, sceneggiatori e attori insieme. Non a caso si parla già di ottobre, come mese cruciale per l’esito delle proteste. Periodo in cui gli studi dovranno iniziare a rendere conto dello stop alle produzioni e in cui, si stima, molti lavoratori finiranno i risparmi. 

Fonte: Variety

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