Vidi Lo Hobbit: un viaggio inaspettato quando ancora non scrivevo di cinema. Dieci anni fa. Mi era permesso entrare in sala avendo già deciso che avrei amato il film tanto quanto l’avevo atteso. Il libro, ovviamente, era già stato riletto. Gran parte delle notizie assimilate e i trailer studiati a memoria. Sapevo cosa aspettarmi, ma quando si riaccesero le luci capii che, in realtà, non sapevo nulla.

Desideravo il crescendo emotivo del Signore degli Anelli, e non l’ho trovato. Speravo in una rivoluzione tecnologica dello stesso tipo, un’uguale senso di necessità della trilogia, ma non c’era nulla di tutto questo. Una delusione cocente, assurda, radicale che mi turbò. Così Lo Hobbit quel giorno mi insegnò con uno schiaffo una cosa che ancora porto con me: come essere uno spettatore. 

Lo Hobbit: un disastro inaspettato?

No. Lo Hobbit non è un disastro però il risultato finale è non è nemmeno inaspettato. È solo un film (e una saga) trasparente. Fa vedere ciò che ha sotto, i suoi ingranaggi. Cioè che dietro una saga campione di incassi c’è sempre uno studio, con delle persone, con degli avvocati, con dei diritti di sfruttamento, che devono ottimizzare gli investimenti. A volte il gioco riesce bene, a volte no.

Con una produzione così travagliata è quasi un miracolo che il primo film sia uscito così. Prima di tutto perché Peter Jackson, schiacciato da un incarico pesantissimo che ha cercato a lungo di evitare, ha fatto una scelta coraggiosissima in sede di regia. Ha sovvertito la regola hollywoodiana della progressiva oscurità. È rimasto fedele all’atmosfera del libro, una leggera fiaba per bambini, cercando di collegarlo gradualmente alla vecchia trilogia.

Fu più semplice capirlo che accettarlo per molti. Ci si rifugiò dietro ai numerosi tradimenti, alle assurdità di trama dei film seguenti, per massacrare un’operazione che non poteva essere in alcun modo diversa. Non secondo lo studio. 

Un cambio di regia e il PIL della Nuova Zelanda

Quando venne annunciato il progetto in mano al regista del Signore degli Anelli i pianeti sembrarono allinearsi alla perfezione. Oggi, vedendo la continuità con cui Guillermo Del Toro non ha sbagliato un film, si spera che da qualche parte del multiverso qualcuno abbia potuto vedere il suo adattamento. Cambiare tono, regia, campionato rispetto al Signore degli Anelli era la mossa giusta. 

Come la storia della rana e lo scorpione, Hollywood, che attraversa il fiume sul dorso delle sue proprietà intellettuali, è disposta a dilaniarle nel mezzo del guado per moltiplicarle. Da una diventa tre. Anche a costo di affondare. Perché quella, in fondo, è la sua natura (di impresa che deve sostenersi). Così è stata creata una simmetria non necessaria. Tre film su tre libri prima. Tre film da un esile libro dopo. Ci sono storie con cui si può fare. Non con l’opera di Tolkien, venerata in ogni sua articolazione e già di suo impossibile da trasporre con totale aderenza. 

Di fronte agli occhi di noi spettatori stava avvenendo un’operazione vampiresca. C’era una storia molto amata che veniva dissanguata in tre inesorabili e sofferenti tappe. A noi restava la nostalgia e l’emozione autoindotta. Perché ne Lo Hobbit c’era un apparato spettacolare incredibile, ma meno riuscito del Signore degli Anelli. C’era un viaggio appassionante, con minore tensione rispetto a quello di Frodo. C’erano attori eccellenti, ma nessuna sorpresa capace di diventare un’immaginetta spiegazzata nei diari di scuola. Non c’era nemmeno più quella sensazione di essere una piccola comunità che stava regalando al mondo una fantasia prima d’ora solamente letteraria. 

Nel frattempo invece nelle sedi politiche della Nuova Zelanda si dibatteva per mantenere la produzione in loco. La Warner Bros scucì un accordo di 25 milioni di dollari al governo per evitare la delocalizzazione dei set. Perdere la saga sarebbe costata al paese 1,5 miliardi di dollari. In quel momento uno spettatore imparava che la buona riuscita di un’opera artistica non dipende solo dalla sinergia e dall’ispirazione dei fattori interni. Deve esserci armonia e un contesto favorevole anche all’esterno.

Gli effetti speciali non sono un progresso lineare

Più la tecnologia progredisce, migliori saranno gli effetti speciali. Questo assunto è falso. Ed è stato Lo Hobbit a dimostrarcelo. Può essere che il realismo del Signore degli Anelli sia stato volutamente accantonato per lasciare spazio a un tono ancora più spiccatamente fantasy. Però è anche impossibile non vedere nelle immagini di questa saga molta meno fatica, meno creatività (che spesso nasce dai limiti tecnici) e troppa computer grafica. Un uso meno ispirato delle possibilità date dalla magia del cinema.

Per fortuna c’erano le nuove applicazioni alla proiezione, come il 3D e l’HFR che – come si evince dai molti dietro le quinte – stimolavano Peter Jackson più di tutto il resto. Molto meno gli spettatori. Non tutto della trilogia è da buttare, sia chiaro. Il più delle volte le scene che restano impresse vengono dalla penna di Tolkien che corre in aiuto. Gli indovinelli nell’oscurità, Smaug, un simpatico e impertinente Bilbo Baggins. Quando però il film cede la parola al reparto VFX, tutto perde di senso. Come showreel funziona, come dispositivo per estrarre emozioni no.

Così, con un altro duro colpo, lo spettatore ingenuo (sempre io) ha capito che la spettacolarità del Signore degli Anelli era la ragione per cui pagava il biglietto, i suoi personaggi la catena che lo tenevano attaccato alla sedia per tre ore. 

Lo Hobbit ha tutto il diritto di essere meno bello delle aspettative

Oggi a questa trilogia si può volere molto bene. Un po’ perché si è capito, vedendo la concorrenza attraverso anche vari generi, che non è mai semplice raggiungere un risultato anche poco più che mediocre con delle macchine così imponenti. E poi perché lo spettatore deluso ha capito che il problema non è stato il risultato (che difficilmente sarebbe stato diverso) bensì il progetto. E lui in primis era colpevole (ma non condannabile). Avevo applaudito al raddoppio dei film. Mi ero esaltato quando si è diviso in tre. Ho sperato nel legame con la vecchia trilogia. Mi sono lasciato ingannare dal tono dei trailer. Ho pensato che quel film fosse per me, ormai adulto. Peter Jackson l’aveva pensato, come Tolkien, per un’altra generazione. Ha scontato però il fatto di averlo girato tardi, dopo il suo capolavoro già maturo.

I film possono deludere, e avere lo stesso qualcosa da insegnarci. È in qualche modo un loro diritto. È parte del gioco.

Nel mio caso, a dieci anni di distanza, Lo Hobbit continua a dirmi di non dare per scontato la bellezza e la potenza artistica. Di smettere di cercare ciò che voglio e di essere il più possibile un foglio bianco come quando arrivò per la prima volta sullo schermo il logo della New Line con le note di Howard Shore. Dieci anni dopo l’inciampo de Lo Hobbit continua ad aumentare la stima e l’assoluto stupore per Il Signore degli Anelli. Non l’ha rovinato. L’ha messo su un piedistallo come un trionfo assoluto che, l’ha dimostrato a sue spese, non è possibile imitare.

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