Jann Mardenborough è il protagonista di Gran Turismo. È interpretato da Archie Madekwe, ma è anche un pilota realmente esistente. Il film di Neill Blomkamp racconta, con molte libertà, la sua storia. Ma Gran Turismo è anche l’adattamento dell’omonimo videogioco di Polyphony Digital. L’incontro tra i due ha dato vita a un film sportivo che dice cose impossibili agli altri film sportivi.

Le set visit di Gran Turismo hanno portato la stampa a provare le macchine su un vero circuito (cliccate qui se volete vedere il nostro Bede sfrecciare a 210 km all’ora). Sia nel trailer che nei materiali promozionali è stata stressata l’idea di un real driving simulator che ha dato origine a una incredibile storia vera e al fatto che il film era proprio dedicato a quell’atleta e alla tecnologia che l’ha allenato. Tutto, purché si sapesse che l’adattamento di Gran Turismo non era il solito film tratto dai videogame. Era bensì più vicino al biopic che alla trasposizione delle dinamiche di gioco. Era una storia vera. Ma ce n’era veramente bisogno?

Gran Turismo: come trarne un film?

Con il film ancora in sala vi avevo proposto una riflessione sul un nuovo genere cinematografico che si è fatto largo in maniera molto vistosa ma poco riconosciuto: il cinema dei brand. Il ragionamento è molto semplice e dà la risposta alla domanda appena posta. 

Il cinema dei brand prende un oggetto, un gioco, una linea di bambole, una scarpa, e li rende protagonisti. Non loro in quanto tali, non sempre sono personaggi in grado di agire (in The Lego Movie e Barbie sì), più spesso sono come un centro a cui tutti i personaggi tendono. Air – La storia del grande salto non fa venire voglia di correre, ma di acquistare delle scarpe (come indica il significativo finale). Gran Turismo non fa ammirare Jann Mardenborough, nonostante quanto promesso in sede promozionale, ma fa pensare che Gran Turismo sia un gioco dannatamente accurato. Uno di quelli che possono essere messi alla pari di un simulatore professionale. Si entra nel film pensando alla storia di un ragazzo che cambia la sua vita passando dagli eSport alle gare automobilistiche su circuito fisico, si esce con la voglia di provare a fare lo stesso.

Quindi sì: Polyphony Digital e Sony avevano bisogno di una storia vera per dimostrare la loro tesi. La GT Academy è stata un successo, il gioco è qualcosa di più di una semplice attività di intrattenimento. Siamo onesti: era anche l’unica maniera possibile per fare passare un pitch che avesse Gran Turismo nel titolo. Cosa l’avrebbe distinto, altrimenti, da un qualsiasi film di auto?

Due anime che combattono tra di loro

Gran Turismo

Il problema è che Neil Blomkamp è un bravo regista. Molto di più di un cameraman a servizio del progetto, non può fare a meno di imporre la sua energia al montaggio. Così, contro ogni previsione, Gran Turismo diventa una tamarrissima quanto esaltante esperienza cinematografica. Le gare sono girate bene, la potenza del motore si sente sotto i piedi. Questa, nei film di corse, è una delle decisioni tecniche più importanti: un suono che fa sentire presenti. Anche la velocità è tangibile e la struttura classica della sceneggiatura, del loser che con il duro allenamento riesce a cambiare la sua vita, non sorprende, ma è gradevole. Fino a quando non ritorna Sony a prendere in mano il film. 

Ecco quindi le tremende inquadrature nella mente di Jann in cui visualizza il circuito come se fosse all’interno del videogioco. Ancora peggio sono gli snodi obbligati, in cui a venir preso di mira non è solo il protagonista, ma anche la sua passione, il suo allenatore, il suo scopo di vita: il videogioco Gran Turismo. Il dovere dello spettatore, secondo Sony, a questo punto dovrebbe essere quello di stare dalla parte del progetto GT Academy. Nella realtà nessuno è comprabile così facilmente. O meglio, serve altro per vendere il videogioco. 

Per chi ha già avuto tra le mani un controller collegato a Gran Turismo, magari nei tempi delle prime Playstation, a funzionare di più sono i richiami nostalgici, dai suoni ai punti di vista più riconoscibili nel linguaggio visivo del gioco. 

Sono due anime che combattono tra di loro: quella di un biopic tradizionale e un film che traspone un videogioco. Finché viaggiano su binari paralleli tutto va bene, quando si intrecciano Gran Turismo esce fuori strada. 

Non tutto è male in Gran Turismo

Gran Turismo

In Gran Turismo ci sono altre cose buone. Un David Harbour che ci crede tantissimo (e si diverte ancora di più). Ci sono belle macchine e una colonna sonora discotecara che alterna inni nazionali e musica classica con tale nonchalance e cattivo gusto da fare il giro e diventare interessante. O meglio, divertente.

Questi film si valutano anche sull’epica che riescono a creare, sull’enfasi che mettono in quello che mostrano. Ci si ritrova a pensare che sull’esito di una gara dipenda molto di più di quella che è effettivamente la posta in gioco (cioè la gloria del singolo)? In parte sì. 

In Gran Turismo tutto è già visto, tranne un piccolo dettaglio. È quello che salva il film. Come normale, quando il cinema mitizza le imprese atletiche, l’enfasi viene messa sulla componente umana. Qui no. Per quanto Blomkamp cerchi di rendere Jann Mardenborough l’eroe della storia, a fare il percorso di crescita non è solo lui, ma è un team e un progetto imprenditoriale. Non si dimostra che lui è vincente, ma che il gioco può creare un grande pilota. Uno su mille… ma comunque almeno uno. 

Gran Turismo ha fiducia nella tecnologia. In qualsiasi altro film Jann sarebbe stato il nemico. L’uomo con un team e con la tecnologia a sua disposizione, contro il talento puro, fatto con il sudore e con la presenza nel circuito. Serviva una storia vera per farci accettare tutto questo. Così facendo Blomkamp e Sony hanno creato uno dei modelli atletici dalle possibilità di identificazione più ampie possibili. Tutti vorremmo essere Rocky, ma pochi vorrebbero allenarsi come lui. Per quanto Gran Turismo cerchi di impedirlo non si può non arrivare in fondo pensando che, alla fine, diventare campioni come Jann sia un’impresa che tutti possono almeno provare ad affrontare. Uno sforzo non così difficile, in fondo anche divertente, una scommessa alla portata di tutti, un modo per trasformarsi da nerd a re del mondo. Un gioco, insomma. O meglio, una simulazione. 

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