Trovare un difetto a Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re che non venga compensato dal turbinio di emozioni del film è un’impresa da veri professionisti del “ditino alzato”. L’opera di Peter Jackson azzecca la sua conclusione colpendo un bersaglio così ambizioso con così tanta foga che illumina retrospettivamente anche precedenti due film.

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Questo nonostante Il ritorno del Re sia un’opera meno difficile da azzeccare rispetto a Le due torri (come ha ammesso più volte il regista stesso). L’andamento è più lineare e così carico emotivamente da reggere bene le tre ore e passa su schermo. Eppure la chiusura della grande saga non poteva essere di una virgola diversa rispetto a quello che è stato. E solo Peter Jackson poteva farla così. Doveva essere esagerata, ambiziosa, commovente, e ancora con i “muscoli” ben in vista, ma anche con un cuore cinematografico che batte forte. Gli veniva chiesto di raggiungere le stelle, pur non dimenticando che cosa si prova a restare attaccati a terra.

Checché ne dica Peter Jackson, si può definire quanto meno un’impresa titanica.

Nemmeno le recensioni dell’epoca avevano chissà che obiezioni da fare al trionfo cinematografico che avevano davanti. Ne abbiamo parlato ampiamente qualche giorno fa. Solo Variety accennava a quello che sarebbe poi diventata una delle principali critiche. Scrivono infatti: “Il ritorno del Re è un film di 200 minuti dal ritmo frenetico senza un grammo di “grasso” di troppo. Almeno fino ai molteplici finali inopportuni che vanno avanti all’infinito, come se Jackson non riuscisse a lasciar andare il film”. 

Pian piano, a mene fredda, i cinque finali “interminabili” sono diventati oggetto delle ironie dei commentatori, nonché una delle principali critiche mosse al film. I detrattori hanno impostato una narrazione proprio su questi ultimi minuti parlandone come di una conclusione fuori controllo, così strabordante da essere andata oltre i bordi del disegno sbavandolo.

Abbiamo recentemente rivisto il film nella nuova versione 4K nella cornice della sala Energia di Melzo e, francamente, anche oggi come allora, l’interminabile conclusione è un momento di assoluta bellezza che non va cambiato di una virgola.

Il signore degli Anelli lavora con il tempo del racconto. È un lungo film di 9 ore (12 se si considerano le edizioni estese), che sceglie la sua dimensione epica proprio nell’abbondare di trame. Non c’è un elemento utile e uno inutile ai fini del risultato finale. Ogni sequenza, anche quelle più marginali (come la lunga festa iniziale ne La compagnia dell’Anello) vanno a riempire l’immaginario del mondo di fantasia. L’emozione così forte alla fine del viaggio viene proprio dalla quantità di esperienze vissute insieme a questi personaggi. Dai momenti più umili nella terra e nel fango, alle più sublimi vittorie.

Il ritorno del Re non è mai stato il film in cui Frodo butta semplicemente l’Anello nel Monte Fato. È l’atto finale in cui la terra di mezzo combatte per la sua salvezza e si mostra finalmente unita. La battaglia per Minas Tirith non è quella per una città, ma per le sorti di tutto ciò che è giusto, vivo e vero di questo mondo.

E allora la conclusione della missione di Frodo non è assolutamente il finale della storia. Peter Jackson fa esattamente come il suo personaggio: si ferma sul ciglio che segna la fine. Guarda ancora una volta l’Anello, lo stringe tra le mani e non vuole gettarlo.

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Quindi aggiunge un finale, ancora uno sguardo, ancora un abbraccio.

Regala le risate liberatorie della Compagnia riunita per la prima volta dopo tanto tempo. Li rallenta, certo in una maniera un po’ bizzarra, ma sono i primi istanti di sollievo dopo tante ore di sofferenza e morte. L’ultima volta che abbiamo visto Gandalf stava versando una lacrima per la sorte degli Hobbit che temeva di avere mandato a morte. È un bel primo piano il suo. Tenero, bonario e liberatorio.

Con che inquadratura incredibile prosegue poi la sequenza: gli amici riuniti intorno al letto riempiono lo schermo in una maniera che solo il cinema (e quindi l’immagine proiettata su uno schermo enorme) può fare. Ogni personaggio racconta una storia. Ognuno potrebbe avere un proprio primo piano. Invece sono finalmente insieme dopo tanto, ed è compito dello spettatore decidere cosa guardare.

Il ritorno del re Finale

Gli Hobbit giocano e si abbracciano sereni, mentre Aragorn e Legolas porgono i loro rispetti. Gimli si pulisce l’occhio dalla lacrima che gli sta scendendo, e Gandalf inizialmente composto mette le mani ai fianchi con la bonaria aria di rimprovero che lo contraddistingue. La scena non può che chiudersi con il sorriso di Sam.

Il secondo finale chiude invece la trama politica che presta il titolo al film: il Re è tornato. L’incoronazione di Aragorn avviene in una Minas Tirith gremita. Ma il vero colpo di scena è un altro: l’incontro con gli Hobbit. Il grande e solenne incontra il piccolo e umile. Quale migliore immagine per raccontare l’epica Tolkieniana e tutto l’amore dell’autore per ciò che è semplice? Le costruzioni della società, le istituzioni, si inchinano agli eroi silenziosi che, non visti e non temuti, hanno cambiato le sorti di un’era.

Quando l’inquadratura si allontana c’è tutta la scala di dimensioni de Il ritorno del Re: dai volti si alza la prospettiva fino a vedere la città nella sua interezza senza riconoscere più le persone. Dalla carne alle fredde rocce, però ancora pulsanti di umanità. La transizione che segue è una dissolvenza incrociata che riporta il film dal realismo al piano della leggenda. Se nella Compagnia dell’Anello entravamo nella mappa della Terra di Mezzo, ora dall’immagine piena di dettagli ritorniamo alle pagine illustrate del libro.

Il signore degli anelli transizione

Il ritorno alla Contea è caldo. L’anziano che osservava gli Hobbit e Gandalf nel primo film ritorna ne Il ritorno del Re. Lo vediamo incrociare gli occhi degli avventurieri, ma lo scambio è completamente diverso. Ora c’è orgoglio nella posa di chi, dall’alto di un cavallo, è di nuovo a casa. La Contea non è cambiata, e nemmeno i suoi abitanti, ma i nostri protagonisti sì. Ci sono ferite che non si potranno togliere (come Frodo) e c’è un nuovo coraggio nel prendere in mano la propria vita come fa Sam.

La maestria di questo terzo finale è tutto merito della scelta di girare i film senza soluzione di continuità. Alcune inquadrature che Jackson aveva inserito ne La Compagnia dell’Anello per spiegare la vita degli Hobbit, ritornano qui in maniera speculare. In questo momento vediamo che è cambiato tutto. L’arco di maturazione si realizza proprio quando si ritorna a casa e ci si confronta con la normalità e la vita di sempre. Quanta storia che c’è nella decisione di Sam di alzarsi e andare da Rosie, la donna che ama. Basta uno sguardo degli amici, un respiro profondo, e questo istante chiude la lunga storia di amicizia e di affetto, dandole un lieto fine.

Il Signore degli Anelli Il ritorno del re

Non parla, non descrive, mostra dei gesti che solo chi ha compiuto l’intero viaggio può comprendere. Quanta vita vera che c’è dentro queste immagini, quanti sentimenti autentici. Non sono più Hobbit, non siamo più in un regno di fantasia: è un’immagine eterna fuori dal tempo e dallo spazio. Un momento di recitazione spontanea ed immedesimata. Gli amici scherzano, ridono e fremono per Sam. Lo prendono in giro in maniera vistosa perché gli vogliono bene. Noi sappiamo che stanno tifando per lui. Un velo di malinconia negli occhi di Frodo ci accompagna però al quarto finale.

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L’eredità di Bilbo è stata raccolta. La storia è continuata. Ma ora anche il nostro narratore ci deve lasciare. Si merita il riposo e la pace. Ci si prepara al saluto finale, mettendo un punto all’ultima riga e lasciando altre pagine vuote. Non è un addio di morte, ma è l’inizio di un qualcosa di nuovo. C’è tanta fragilità in Bilbo, e quanta tenerezza che riesce a infondere Ian Holm quando lo zio china la testa sulle spalle del nipote. 

Ian Holm Elijah Wood

Partire per un nuovo viaggio non è mai semplice, soprattutto se questo è senza ritorno. Eppure ci sarà ancora un domani. Un nuovo sole, nuove notti, altre vite che nasceranno e amori ed amicizie troveranno il proprio compimento. Si vive ancora nella Terra di Mezzo, e proprio perché il male non ha vinto gli occhi dei personaggi si riempiono di lacrime al momento della partenza. La simpatia l’uno verso l’altro, il senso di mancanza che produrrà la distanza, sono l’esempio più luminoso del trionfo del bene. Non tutte le lacrime sono di dolore, e queste sono di chi non è nato dalla terra come i disumani Uruk-hai, ma è ancora fatto di carne e anima. 

Frodo, Sam, Merry e Pipino si abbracciano per non lasciarsi andare. Come con l’Anello, ma per un legame ancora più forte. Non servono parole, mentre l’Hobbit si allontana con Gandalf. La colonna sonora di Howard Shore lascia scorrere le emozioni prima dello schermo nero.

Peter Jackson ci lascia ancora un istante, un ultimo respiro prima del congedo con il film. È il quinto finale: l’inizio della nuova vita di Sam. Si ritorna a casa. Chiusa la porta su questo mondo di fantasia si riaccendono le luci della sala. Le immagini non possono più andare oltre, ma gli abitanti della Terra di Mezzo continuano le loro avventure da dietro quel telo bianco e nel ricordo lasciato in chi ha visto. È questo il cinema per Peter Jackson.

Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re si chiude come un saluto commosso. Un commiato obbligato, ma che sembra arrivare sempre troppo presto. E i cinque finali eccessivi, ridondanti, caricati all’inverosimile di emozione, sono il segno più grande dell’amore che Peter Jackson ha infuso in questa impresa cinematografica. In un’epoca in cui la maggior parte dei film sembra doversi chiudere il più alla svelta possibile per tempi produttivi calcolati male o per avere esaurito il budget a disposizione, ogni momento in più concesso al pubblico spiega quello che è veramente questa trilogia. Non semplici film, ma un’esperienza viscerale. Non una storia di fantasia, ma un’epopea fatta di sentimenti ed emozioni universali che la rendono immortale.

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