La maschera di Zorro è su Amazon Prime Video

La nostalgia è una trappola nella quale è fin troppo facile cascare: persino la scienza ha confermato, per esempio, che ci sono solide basi neurologiche per cui anche a quarant’anni continuiamo ad ascoltare la musica di quando ne avevamo quindici. E un altro studio, che ironicamente ha la stessa età di La maschera di Zorro, rivelava nel 1998 che sì, è vero, tendiamo a ricordarci meglio le cose che ci sono successe tra i 10 e i 30 anni. Per cui capita di rivedere un film di tanti anni fa, che per noi anziani significa poi “un film della nostra adolescenza”, e automaticamente essere travolti da ricordi vividi e agrodolci: scatta la nostalgia, e il senso critico finisce fuori dalla finestra. Ecco perché un’affermazione come “La maschera di Zorro è un film come non se ne fanno più” è densa di pericoli: quanto è vero, e quanto è frutto di un ricordo distorto?

Avendo di recente rivisto il film di Martin Campbell ci sentiamo di affermare che è tutto molto vero, e che in questo caso la nostalgia è validissima. Nostalgia per un tempo in cui, come scrisse il sempre compianto Roger Ebert, “gli stunt e gli effetti speciali erano integrati nella storia, e non viceversa”. Nostalgia per quando uno studio come la Amblin poteva decidere di investire 100 milioni di dollari per un’avventura che più old school non si può, sapendo che sarebbe rientrata dell’investimento. Nostalgia per certi blockbuster che non avevano pretese di orizzontalità ed erano solo interessati a essere ben scritti, ben diretti e ben recitati.

La maschera di Zorro Cat

La maschera di Zorro è un voluto e sentito omaggio

Diciamolo subito: anche visto sotto la lente del 1998, cioè un quarto di secolo fa, La maschera di Zorro è un film vecchio. Nel senso che è un voluto e sentito omaggio ai film di cappa e spada degli anni Venti, quelli con Douglas Fairbanks o Tyrone Power, ma ridecorato e migliorato per l’occasione. Non è un caso che fosse prodotto (e fino a un certo punto avrebbe anche dovuto essere diretto) da un maestro della nostalgia come Steven Spielberg, che ha passato una fetta importante della sua carriera a celebrare e aggiornare le opere con le quali era cresciuto e che gli avevano fatto venire voglia di fare cinema.

Più che un omaggio filologico a quei film, però, La maschera di Zorro sembra la messa in scena di un ricordo. Il tempo, si sa, è bravissimo a lisciare i difetti delle cose che amiamo, e mettere in evidenza i pregi. È l’effetto Stranger Things, se volete e per restare a Spielberg, quello per cui gli anni Ottanta sono diventati un regno fatato di BMX, cinefilia e giochi di ruolo, come se il 100% dei bambini cresciuti in quel decennio passassero le loro giornate come i Perdenti di Derry. O se preferite un riferimento completamente diverso, è quello che si dice spesso giocando al remake/remaster/Enhanced Edition di un vecchio videogioco: non è uguale a com’era, ma uguale a come ce lo ricordiamo filtrato con le lenti della nostalgia.

Vigorous

Un film degli anni Venti filtrato dalla memoria di Speilberg

Ecco: La maschera di Zorro è un film degli anni Venti uguale a come se lo ricordava Spielberg filtrandolo con le lenti della nostalgia. Tutte le naturali goffaggini dovute al fatto che i mezzi a disposizione non erano paragonabili a quelli di ottant’anni dopo, tutti gli ovvi difetti di opere rischiose e uscite quando ancora i film non avevano né i colori né il sonoro, vengono cancellati, tutti gli effetti speciali, anche i più artigianali, hanno la qualità di un blockbuster Amblin da 100 milioni di dollari a fine anni Novanta… è un film che paradossalmente ti fa pensare “gli originali non erano così!”, pur essendo loro estremamente fedele nello spirito. È un po’ l’operazione che verrà fatta qualche anno dopo da un altro di questi “film che non si fanno più”, e che cominciava però a spostarsi più verso il blockbuster di concezione moderna, cioè I Pirati dei Caraibi.

Questo suo essere contemporaneamente senza tempo e molto moderno – per l’epoca, ma c’è da dire che essendo tutto stunt ed effetti pratici il passare degli anni si sente meno rispetto ad altre opere più digitali di quegli anni – è l’anima di La maschera di Zorro, uno dei segreti del suo successo e anche uno dei motivi per cui è una specie oggi estinta in natura. Un altro, evidentissimo fin dalle prime scene, è che è un film elegante e non estremo, che cambia tono e ritmo con disinvoltura e a seconda delle necessità narrative, e scorre quindi con la semplicità di una bella storia. Uno dei problemi del cinema ad alto budget di oggi è che pare impossibile mettere nello stesso film la slapstick e il melodramma, che sia necessario scegliere un tono e una direzione e non abbandonarla mai per nessun motivo al mondo. O si punta a far ridere, o a far piangere. O l’eroe è senza macchia e senza paura, oppure un criminale. Sono spariti i toni di grigio.

La maschera di Zorro Banderas

L’ABC della buona scrittura

I personaggi di La maschera di Zorro, invece, sono scritti come esseri umani, e hanno questa caratteristica apparentemente dimenticata di non essere sempre dello stesso umore, ma di adeguarsi a quello che sta succedendo intorno a loro e non alla loro scheda del personaggio. Negli ultimi anni, e qui ammettiamo che il discorso si allarga dal film di Martin Campbell per prendere direzioni impreviste, è diventato sempre più importante che i personaggi di certi film (che nella maggior parte dei casi prevedono la presenza di supereroi, ma in fondo cos’è Zorro se non un supereroe senza superpoteri?) si comportino sempre allo stesso modo all’interno dell’opera, per cui se il personaggio X è noto per le sue battutine costanti e il suo umorismo cinico è fondamentale che questa caratteristica sia rimarcata a ogni occasione possibile, e che al povero X non venga mai dato modo di dimostrare sfaccettature.

Sembra una banalità, eppure rivisto oggi La maschera di Zorro fa impallidire gran parte dei suoi omologhi contemporanei con la pura forza dell’ABC della buona scrittura. Il che non significa rinunciare agli eccessi, al personaggio cattivo cattivissimo sempre sul punto di arricciarsi i baffi con aria crudele, alle goffe e un po’ razziste forze dell’ordine locali, a tutte le caratteristiche che rendevano i racconti e i romanzi di Zorro quello che erano – cioè opere pulp che erano scritte per intrattenere, shockare, eccitare. Il film di Campbell dimostra come si fa a intrattenere, shockare ed eccitare in ambito cinematografico: sa quando serve esagerare, sa altrettanto bene quando è importante tirare fuori l’umanità dai suoi attori.

Love

Potreste obiettare che è più facile quando a disposizione hai degli attori bravi e soprattutto in un periodo di forma strepitoso, da Anthony Hopkins (che si dovette studiare la parte in un mese perché fu chiamato all’ultimo) ad Antonio Banderas (voluto da Robert Rodriguez, che in origine avrebbe dovuto dirigere il progetto) passando per Catherine Zeta-Jones, all’epoca ancora una semi-sconosciuta ma già con un fascino anch’esso senza tempo, e una clamorosa faccia da cinema in costume. Risponderemmo a questa obiezione dicendo solo “avete ragione”: La maschera di Zorro è quello che è anche grazie ai suoi interpreti. E alla creatività del suo regista. E alla qualità cristallina della sceneggiatura. Persino a un lavoro all’apparenza crudele ma precisissimo di montaggio e tagli violenti, che portarono via alcune scene considerate fuori tono, e quindi eliminate in nome della perfezione. Altissimo artigianato, con un cuore grande così: vi sfidiamo a smentirci se diciamo che, almeno in questo genere, di roba così non se ne vede davvero più.

Cosa ne pensate? Se siete iscritti a BadTaste+ ditecelo nei commenti!

Seguiteci su TikTok!

Le serie imperdibili

Classifiche consigliate