RoboCop (2014) è su Amazon Prime Video

Hanno fatto molto scalpore (cioè: hanno molto colpito chi scrive) le recenti parole di Joel Kinnaman relative al remake di RoboCop da lui interpretato nel 2014. Nel caso ve le foste perse ve le riassumiamo qui, mettendo in evidenza i due passaggi secondo noi fondamentali: “Penso che fosse uno di quei film in cui noi che l’abbiamo fatto, non abbiamo completamente tenuto conto di ciò che RoboCop significasse per i fan […] ritengo che il film avrebbe avuto più successo se avessimo ascoltato di più, e in anticipo, i fan”. Carino, no? Un’ammissione di colpa che è insieme captatio benevolentiae nei confronti di quel pubblico che otto anni fa accolse il film di José Padilha con frizzi e pernacchie. Ebbene, la nostra impressione è un’altra, e cioè che, nonostante siano passati quasi dieci anni da quel flop, Joel Kinnaman ancora non abbia davvero capito quale fosse il problema del suo RoboCop.

Proviamo a spiegarci. La settimana scorsa abbiamo tentato di descrivere i motivi per cui il RoboCop di Paul Verhoeven è non solo un grandissimo film action, ma anche una parabola fantascientifica geniale e profetica, nonché il ritratto di un eroe molto diverso da quelli che il cinema mainstream di quegli anni tendeva a celebrare. RoboCop è un cyborg programmaticamente senza sentimenti, un’entità post-umana che deve reinventarsi e che trova finalmente la sua vera identità non semplicemente “tornando umano”, ma facendo un passo avanti dal punto di vista evolutivo e ricostruendosi a partire dalle macerie della sua esistenza precedente.

Kinnamani

Lose the arm!

Il fatto che il film si chiuda con la battuta “Come ti chiami?” “Murphy” è indicativo, ma lo è ancora di più il modo in cui si risolve lo “scontro finale” tra lui e Dick Jones, il vero villain del film: Robocop NON supera la sua programmazione in nome dell’etica o anche solo della vendetta, ma viene aiutato dal Vecchio che, licenziando in tronco Jones, permette a Murphy di aggirare quello che sta scritto nel suo sistema operativo. È un trucchetto, non un’improvvisa e improbabile presa di coscienza; e chi ci dice che quel “mi chiamo Murphy” finale non sia, allo stesso modo, una dimostrazione che RoboCop ha imparato come si vive tra gli umani e come si finge di essere uno di loro, pur restando fermamente un cyborg?

Fissati questi paletti, arriviamo quindi al remake di José Padilha, che è un tentativo di riscrivere non solo la storia ma la mitologia stessa di RoboCop. Ricorderete per esempio che nell’originale l’operazione di salvataggio e metamorfosi di Murphy si concludeva con Miguel Ferrer che insisteva perché gli venisse amputato il braccio, l’ultimo pezzo sano di corpo che gli rimaneva. “Lose the arm!” ripeteva Bob Morton, nel tentativo anche simbolico di allontanare definitivamente il suo poliziotto robot dalla sua natura umana. Nel film di Padilha, al contrario, il braccio rimane, ed è fin da subito l’indicazione che il RoboCop del 2014 è un personaggio diverso già nei presupposti. Non è un robot indistruttibile e incorruttibile, ma un umano infilato in un’armatura hi-tech e sostanzialmente trasformato in schiavo, o se preferite in strumento.

COprorob

RoboCop, più umano dell’umano

In questo senso Kinnaman ha ragione: il suo RoboCop è un’altra cosa, e se al tempo la produzione avesse “ascoltato i fan” come dice lui le cose sarebbero andate diversamente. Il punto però è un altro, e cioè: non è solo questione di aderenza al canone, di rispetto di un originale leggendario. Il punto è che il RoboCop del 2014 è un personaggio meno interessante di quello del 1987. Meno stimolante, meno stuzzicante, soprattutto uguale a mille altri personaggi simili che si trovano a dover far convivere il loro lato umano e il loro lato “altro”. Il RoboCop di Kinnaman è un supereroe con grandi responsabilità, è Edward Mani di Forbice, è Jean-Luc Picard che anche quando diventa Locutus dei Borg non smette di essere in contatto con il suo lato umano e lo usa per liberarsi dal giogo dell’oppressore. È Roy Batty che si sente più umano degli umani.

Non a caso gli viene affiancata una moglie che, invece, nell’originale era quasi assente, e che qui diventa il primo motore di tutte le sue azioni, in presenza ma anche e soprattutto in assenza. Non a caso sul finale non gli serve alcun trucchetto per vincere: semplicemente, il suo lato umano riesce a sopraffare anche la sua programmazione, quanto basta per permettergli di sparare al cattivo e salvare la principessa. L’arco narrativo del RoboCop originale funziona anche perché non è prevedibile, che è ironico se pensate che parla di un robot programmato per obbedire. L’arco del RoboCop di Kinnaman è scritto fin dal primo istante, prevedibile e già visto: è un “mostro”, in senso lato, che alla fine si dimostrerà più umano dell’umano, o quantomeno umano a sufficienza da superare i suoi limiti cibernetici.

RoboCop Kinnaman

Spunti moderni che non c’entrano con Verhoeven

Non è quindi questione di ascoltare o meno i fan, anzi: con tutti i suoi difetti, il RoboCop di Padilha ha una serie di spunti moderni e affascinanti che non c’entrano nulla con il film di Verhoeven ma che parlano del nostro mondo di oggi (ieri, ormai), del futuro della guerra e anche dell’ordine pubblico, et cetera. Cioè: si vede che c’è una certa cura nella scrittura, il tentativo quantomeno di non parlare delle stesse identiche cose di cui parlava il film del 1987. Il problema è che, fan o meno, ci sono certe cose che non andrebbero cambiate, non per principio o per sacralità, ma perché se le cambi diventano meno interessanti.

Ecco, la questione è tutta qui: non è che il remake di RoboCop sia un film mediocre perché è diverso dall’originale e perché non è stato fatto per accontentare i fan. Lo è perché racconta una storia meno interessante, di un personaggio meno interessante e soprattutto già visto e stravisto, e la cui parabola ci dice cose che erano già state dette altrove e meglio. Non è questione di accontentare o meno i fan, ma di incapacità di stimolare le sinapsi con la stessa efficacia del film di Verhoeven.

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