Sinister è su Amazon Prime Video

Quattro anni fa, un gruppo di persone non meglio identificate mise in piedi un progetto chiamato The Science of Scare, la scienza dello spavento, volto a stabilire con metodi incontrovertibili e galileiani quali fossero i film più terrificanti della storia del cinema. Un giochino divertente alla fine del quale una serie di cardiofrequenzimetri dichiararono vincitore Sinister, il film che più di tutti aveva causato tuffi al cuore e salti sulla sedia. Il progetto è ancora in piedi, ed è stato aggiornato l’ultima volta nel 2023; il film di Scott Derrickson è ancora saldamente al primo posto, seguito da due new entry: Host, l’horror pandemico di Rob Savage tutto ambientato su Zoom, e il magnifico Skinamarink, di gran lunga il film più assurdo del 2023. Come mai, viene da chiedersi, un film di successo, sì, ma che da allora ha avuto un solo sequel non particolarmente fortunato e non è mai riuscito a diventare un vero franchise, fa ancora così paura?

Sinister, elevato prima di te

Prima di provare a rispondere alla domanda, vale la pena dare uno sguardo a Sinister, a 11 anni e parecchi capitoli di Conjuring e Insidious dopo. Perché in teoria il film di Scott Derrickson nasceva con gli stessi intenti dei due franchise appena citati: doveva presentarci un nuovo spaventoso mostro, e aprire quindi la strada a uno, due, tre, infiniti sequel e spin-off. Lo stesso metodo che ha trasformato Conjuring nel franchise horror di maggior successo di sempre, e Patrick Wilson in una star del genere. E pur incassando quasi 90 milioni di dollari a fronte di un budget di 3, Sinister non riuscì mai a fare questo salto.

Sinister Ethan

Il dubbio, con il senno di poi, è che non ce l’abbia fatta perché era troppo raffinato, troppo elevated per usare un termine in gran voga, per poter de-evolvere in un’IP basata sulla ripetizione ossessiva degli stessi schemi. Sinister non è il solito film di demoni casalinghi, e ha molto in comune con certe storie di Stephen King che usano l’orrore per riflettere sulle storie che ci raccontiamo, sul nostro rapporto con la verità, sulla passione che diventa ossessione. Non a caso il protagonista Ellison (come Harlan) Oswalt (come Patton) è uno scrittore, che ha cominciato con la fiction per poi passare al true crime, e che passa gran parte del primo atto a interrogarsi su di sé e sul suo ruolo nella società. Non a caso la paura ci mette un po’ a fare capolino: Sinister dedica almeno mezz’ora a presentarci la famiglia Oswalt e a spiegarci quale sia il rapporto del pater familias con le forze dell’ordine, e delle forze dell’ordine con lui. C’è una cura nei dettagli che all’inizio si può quasi scambiare per lentezza: Sinister è un film che vuole decidere in autonomia quando diventare un horror puro.

La cascata dei jump scare

Anche sulle modalità di messa in scena dell’orrore Sinister ha le sue idee, che si sono dimostrate vendibili ma non sono necessariamente replicabili. Le presenze che infestano la nuova casa degli Oswalt sono minacciose, sì, ma si manifestano quasi sempre a favore di spettatore: i nostri eroi ci mettono un bel po’ ad accorgersi della situazione, il che contribuisce da un lato a farli comportare come persone normali in un contesto che non lo è, dall’altro carica tutta la tensione su chi guarda, costringendolo ad assistere impotente ad apparizioni, rumoracci e altri marchingegni dell’orrore che i protagonisti identificano come semplici fastidi dovuti a cause naturali. È un film che tortura lo spettatore più di quanto faccia i suoi protagonisti.

Ethan

Questo significa tra l’altro che Sinister fa un abbondante uso di jump scare, non tutti ugualmente efficaci ma quasi tutti usati come arma per far saltare sulla sedia chi guarda, non per terrorizzare i personaggi del film. Loro vivono immersi in una sottile inquietudine, ma non sanno quello che noi sappiamo fino a che non è troppo tardi: immaginiamo che anche questo abbia contribuito a tenere alto il ritmo cardiaco dei partecipanti al famoso esperimento, perché quello di Scott Derrickson è un film che ci mette un po’ ad alzare il volume, ma quando lo fa non molla più. È come se ci fosse una totale assenza di dialogo tra il pubblico e il film: guardare Sinister è come stare dietro a un vetro insonorizzato e batterci inutilmente i pugni contro sperando di attirare l’attenzione di chi sta dall’altra parte, e che sta procedendo ignaro verso la sua rovina.

Ce l’avete un po’ di meta-?

Più che essere il film più spaventoso di sempre, quindi, Sinister è come un acufene: è costante e fastidioso, non ti abbandona più (o almeno per i 109 minuti di durata del film) e ti obbliga a rimanere costantemente in tensione. (e ogni tanto è interrotto da un botto fragoroso, che però non è per forza una caratteristica tipica degli acufeni) È anche un film che colloca alcuni dei suoi momenti più agghiaccianti nel passato e non nel presente: oltre a essere un horror di demoni casalinghi, Sinister è anche un thriller, con tanto di detection e di poliziotti di provincia che ti invitano a non impicciarti degli affari locali. In questo è, come dicevamo prima, kinghiano: è anche una storia su come si costruiscono le storie, intrisa pure di una certa nostalgia anni Ottanta per l’utilizzo quasi pornografico che fa del Super 8 e della natura intrinsecamente perturbante di certe immagini sgranate e ballerine.

Fruffrino

E quindi è anche un po’ un meta-horror, una storia dell’orrore che parla di storie dell’orrore, reale o soprannaturale che sia, e della confusione che si può creare tra la ricerca della verità e l’ossessione per una risposta, quale che sia (se questa frase vi ha ricordato alcuni recenti fatti di cronaca italiana, non siete gli unici). È anche un horror morale, e per questo sarebbe interessante che certi suoi spunti venissero ripresi oggi, nell’epoca che più di tutte vive il true crime come uno spettacolo di massa. Al tempo si era scelto di usare uno scrittore per portare avanti certe riflessioni: oggi Ellison Oswalt avrebbe un podcast, e noi pagheremmo per vedere questa versione di Sinister.

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