Il passaggio più significativo di Smile è la descrizione di cosa si provi ad avere su di sé la maledizione. 

Vedo qualcosa che nessun altro riesce a vedere. È qualcosa che non riesco a spiegare. Sembra una persona ma non è una persona. Sembra diverse persone, a volte finge di essere qualcuno che conosco, a volte è un perfetto sconosciuto, a volte sembra mio nonno che è morto davanti a me quando avevo 7 anni. Ma è sempre la stessa cosa. È come se indossasse la faccia delle persone come maschere. 

L’esordiente Parker Finn ha percorso la strada della maggior parte dei registi horror. Ha fatto vedere un suo corto che funzionava agli occhi giusti e ha trovato l’idea per estenderlo in un film. La descrizione qui sopra, tratta da Smile, descrive bene anche la situazione dell’orrore al centro del suo corto Laura Hasn’t Slept

L’idea è buona: c’è una nuova maledizione in giro. Si presenta come un’allucinazione, in realtà è un’entità ultraterrena che sta puntando le sue vittime. La manifestazione visiva è un lungo sorriso senza gioia. O si muore o si uccide. C’è poco altro da fare quando se ne è affetti. Il fatto che tutto inizi poi in un reparto psichiatrico è la prova che il demone del sorriso va inteso come una metafora delle proprie ferite recondite, quelle non superate e nemmeno affrontate che riaffiorano. Un trauma che si sposta di persona in persona

L’horror spesso gioca sugli opposti. Una ninna nanna può far rabbrividire. Un sorriso può essere minaccioso. Il gioco funziona solo a tratti, anche se queste persone trasformate in una sorta di Kuchisake-onna (donna del folklore giapponese con una spaccatura che le estende la bocca da orecchio a orecchio) sono inquietanti. Gli spaventi si susseguono tutti un po’ troppo simili. L’idea si esaurisce presto, non riuscendo a reggere un film intero.

Però è proprio l’idea di Smile a incarnare una tendenza del cinema horror contemporaneo, un tema comune che molte opere stanno intrecciando: la maledizione è contagiosa. Come un meme.

Smile film

Smile, il merito di una promozione virale

L’idea che tutta la maledizione rimbalzi di persona in persona e che l’unico modo per “batterla” è, di fatto, il totale isolamento delle vittime, è iniziato dalla azzeccata campagna promozionale. Un’idea semplice quanto efficace che ha indubbiamente contribuito ad attirare il pubblico in sala. Durante alcuni grandi eventi popolari, come alcune partite della Major League di Baseball o il Tonight Show, le cineprese hanno inquadrato persone tra il pubblico che fissavano in camera con l’inquietante sorriso. Indossavano la maglietta del film. Tutto questo abbinato al claim: “Se li vedi sorridere… è già troppo tardi”. 

Nulla di nuovo per il cinema horror dove spesso la maledizione deriva dal fare esperienza di qualcosa. Guardare la VHS di The Ring, ripetere Candyman allo specchio o scoprire i filmati di Sinister sono tutti veicoli di una maledizione. La gente ne è attratta, vuole toccare con mano, o meglio, desidera guardare. Nel passato i mostri horror ragionavano sull’azione stessa di essere spettatori, sulla sistematica rottura della quarta parete. Come Samara esce dalla TV anche Pennywise si muove attraverso le immagini

Il contenuto della visione si propaga negli individui

Come la definizione di meme coniata da Richard Dawkins, ovvero di un contenuto culturale che si propaga per imitazione da un individuo all’altro, così anche i mostri horror si giovano della comunicazione di massa. In Smile (e nella sua campagna promozionale) c’è in nuce l’idea che un evento a cui si assiste possa tormentare ed essere rivisto ovunque. Succedeva nel gioco di Obbligo o Verità, ma viene sviluppata in maniera ben più radicale e precisa in Talk to Me

Una mano di gesso mette in contatto con un altro mondo. Chi conduce il rito la usa come prova di coraggio. Chi ne diventa dipendente lo fa per lo sballo. I suoi poteri soprannaturali sono messi online. Si generano contenuti a partire da quell’oggetto. Man mano che altre persone sono invogliate a provare l’esperienza, la forza dell’entità diventa più devastante. Come dire: se c’è qualcosa che non va, il nostro modo di fruire i contenuti, basato sul fenomeno del momento su cui tutti si muovono, crea una valanga impossibile da fermare. 

Una pandemia mediatica oppure una malattia vera e propria che si diffonde come in It Follows. L’entità che perseguita i giovani si trasmette per via sessuale. Un modo per sopravvivere è allontanarla passandola al prossimo. Diffondendo l’infezione, in pratica. Come per Smile anche la maledizione di It Follows non è legata a un luogo specifico, ma segue ovunque. Si attacca alla vittima. 

Smile e le leggende metropolitane

L’oggetto virale di Smile è il trauma. Uno shock che contagia. Diventa un po’ leggenda metropolitana, un po’ contenuto clickbait. La reazione a catena di Smile potrebbe essere cantata sulle note di Alla fiera dell’Est. Rose vede Laura che si uccide mentre sorride, che aveva visto il professore ammazzarsi dopo aver assistito al suicidio di una donna…

Come spesso succede Smile crolla sul finale. Quando il demone dovrebbe rivelarsi per il confronto ultimo, il film diventa un parco giochi di spaventi facili dove tutto può succedere. Da una creepypasta il film passa ad essere un’ allucinazione dentro un’allucinazione. Un gioco a scatole cinesi presente anche in Laura Hasn’t Slept. Il tutto si conclude in una maniera piuttosto deludente. Si ribadisce il punto, sugli ultimi secondi: la maledizione è virale, basta una persona perché viva e si moltiplichi. Ma nella realtà le cose non vanno così. Il meccanismo, quando si ripete troppe volte stanca. La gente tende a dimenticare. Anche le maledizioni virali, prima o poi, annoiano.

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