Motivazioni e temi di Neon Genesis Evangelion sono sempre stati chiari al suo creatore, Hideaki Anno. «Il desiderio di ricollegare l’animazione giapponese, oramai in rovina, alle sue origini; Il desiderio di abbattere il dilagare della chiusura d’animo». Un insieme di motivazioni artistiche/narrative combinate con un intento quasi sociale, che come abbiamo delineato negli scorsi speciali, era un po’ quello del fratello maggiore, relativamente adulto, che elargisce un consiglio prezioso al fratello minore. Un consiglio che, tuttavia, non è facile seguire neanche da adulti. Lo stesso Anno inciampa, prova, tentenna, realizza grandi cose che poi si risolvono in disastri, divaga, va a tentativi. Proprio come Shinji, nonostante tenti di essere Misato. O si ritrovi nella condizione di Gendo. Anno è un po’ tutti i suoi personaggi, in fondo. E, nel 1997, arriva a dare due finali animati alla sua storia che partono dagli stessi assunti ma vanno in due direzioni differenti, a seconda del suo sentimento del momento. Ed è difficile capire se, nel cercare un senso in Neon Genesis Evangelion, sia più importante il percorso o il punto di arrivo: Evangelion è sicuramente un’opera d’arte nell’essere espressione del mondo interiore di chi l’ha realizzata. Fatto sta che si arriva al 2006 e Anno annuncia una “ricostruzione” della sua opera magna, realizzata per il cinema. Una nuova versione cinematografica a cui le definizioni stanno strette. Remake? Reboot? Metasequel? Tutto e niente. Il suo demiurgo, in merito, ha da dire solo che «Eva è una storia che si ripete. È la storia di un protagonista che, malgrado la ripetizione delle stesse esperienze, si rialza costantemente. È la storia di un tentativo: quello di avanzare, di procedere almeno di un unico passo».

La storia si ripete

Se già Neon Genesis Evangelion non era facile da decodificare, il neonato Studio Khara – appositamente creato da una costola di Gainax – aggiunge nuovi strati di significato nel proporre quello che inizialmente sembrava solo una sorta di remake in grande stile, che avrebbe sicuramente cambiato qualcosa (come successe già con The End of e il manga di Yoshiyuki Sadamoto) attualizzando il tutto, senza però sconvolgere l’opera… come invece è puntualmente accaduto. Quattro film per un percorso evolutivo “definitivo” che appare inscindibile da quanto precedentemente fatto. Certo, la tetralogia di Rebuild è un’opera in sé completa e non necessita di conoscere quanto prima realizzato, ma… al di là delle varie “teorie del loop” (su cui non ci inoltreremo in questa sede) vederla dopo aver già vissuto le precedenti incarnazioni dà ancora più spunti di riflessione e più valore a tutto il contesto, cogliendo aspetti anche importanti della trama e della psicologia dei personaggi. Oltre che confermando l’incredibile bravura dei realizzatori della saga nel creare riferimenti incrociati su più fronti: narrativi, grafici, musicali. Su Evangelion ci si potrebbe stare anni ad analizzare tutto frame per frame, scrivendo centinaia di migliaia di caratteri sulle interpretazioni filosofico-psicoanalitiche dei personaggi e delle situazioni. Ma in questo articolo, rimanendo coi piedi per terra, andremo ad analizzare solo qualcuno di questi aspetti, in relazione al tutto, con una esegesi più filmica che altro, per non appesantire troppo il discorso.

1.0 You Are (Not) Alone /// Fly me to the moon

È il 2007. Anno riparte da zero, o meglio, da 1.0, in maniera molto furba. Ce lo vediamo, all’anteprima, in piena Gendo pose con sorrisino beffardo che spunta sotto i baffi, quando i fan rivivono le prime scene della serie originale con una grandeur mai vista e una narrazione apparentemente quasi inalterata. Sì, c’è qualche differenza minore qua e là, tutta una serie di elementi vagamente strani o dettagli diversi apparentemente insignificanti, ma del resto in un remake sono cose prevedibili. Il mare è rosso come nella fine di The End Of? Dettagli… sarà a causa del Second Impact. E in effetti è vero: quasi tutte le differenze possono essere derubricate a scelte stilistiche o di copione legittime per non ricreare un semplice remake shot-by-shot. Alcune cose, però, cominciano a suonare strane… come la prima apparizione di Kaworu Nagisa. Poco importa: il tutto si risolve in un successo commerciale e di critica che lascia contenti sia i fan di vecchia data che chi scopre Eva solo in quel momento. La trama, del resto, è quella già ben nota: il giovane Shinji arriva a Neo Tokyo-3 in seguito alla chiamata del padre Gendo, nella speranza di una qualche riconciliazione. Quello che trova, invece, è solo una buona dose di disperazione e l’assurda responsabilità di proteggere la città da un attacco alieno a bordo di un robot umanoide. Unico raggio di (tiepido) sole: il complicato rapporto che si viene a creare con due delle figure femminili più importanti della sua vita: il suo nuovo tutore Misato (sovrintendente alle sue operazioni militari) e l’insondabile Rei, sua coetanea e collega.

2.0 You Can (Not) Advance /// Beautiful World

Khara lavora a ritmo serrato e appena due anni dopo ecco arrivare il secondo capitolo della storia: e se già il primo aveva solleticato la fantasia dei fan nella creazione di mille e più folli teorie su dove si volesse andare a parare, 2.0 sconvolge a più riprese, sia per l’introduzione del misterioso personaggio di Mari che per alcuni cambi o aggiunte, che mostrano la seria intenzione di Anno di non voler svolgere un semplice “compitino” ma di mostrare come si fa un remake rispettoso ma al contempo fresco e interessante. Alcuni rapporti di forza tra i personaggi cambiano o vengono proprio meno, sostituiti da nuovi dettagli e situazioni caratterizzanti molto ben pensati. Il film riesce nell’impresa di tenere tutti col fiato sospeso: tanto che seguiranno tre anni di apnea. E non solo…

 

Neon Genesis Evangelion

 

3.0 You Can (Not) Redo /// Soul’s refrain

Nonostante alcuni cambi nella trama e nel destino di alcuni personaggi, in primis quelli del terzo Children, Asuka, e del compagno di scuola Toji, il secondo film aveva comunque una trama riconducibile a quella originale, e sembrava che anche il terzo avrebbe seguito questa linea d’azione, sovvertendo alcuni elementi ma restando sui binari noti. Un’illusione in parte alimentata dal bizzarro montaggio di preview alla fine del secondo film, che nulla faceva presagire di quanto accadrà nell’episodio 3.0, quando la trama partirà definitivamente per la tangente, raccontando qualcosa di completamente inedito. Praticamente niente di quanto visto e promesso nel promo di tre anni prima era presente nel film, la cui lavorazione è risultata assai travagliata e il risultato finale, ad ogni modo, è lontano dalle aspettative, nel bene e nel male. Col senno di poi, si tratta di un film con molti bei momenti, ma il senso di estraniazione che attanaglia lo spettatore (voluto forse per replicare quello che prova Shinji) potrebbe risultare fastidioso e complicare la visione e la comprensione della pellicola. Ci si aspetta che si portino avanti le linee narrative lasciate appese alla fine del secondo episodio, e invece ci ritroviamo davanti a un time skip di ben quattordici anni in cui sono successe tantissime cose, la maggior parte delle quali non vengono spiegate, mentre Shinji cade in una nuova spirale (auto)distruttiva causata da uno stimolo teoricamente positivo, ovvero la neonata amicizia con Kaworu. Fino a un finale che lascia più dubbi che risposte.

3.0+1.0 Thrice Upon a Time /// One Last Kiss

Si comincia a temere il peggio. Anno si è nuovamente perso? Il finale tanto atteso, che doveva arrivare poco dopo il terzo film, si fa invece attendere ben nove anni, alcuni dei quali passati senza aggiornamenti significativi, con il regista impegnato in altri progetti più o meno importanti, tra cui il pluripremiato remake autoctono di Godzilla. Appare evidente che Eva è tornato ad essere un peso per lui, ma in seguito a Shin Godzilla Anno ha un nuovo slancio e riprende a lavorare al capitolo finale, il 3.0+1.0. Sul significato e la simbologia dei titoli della pentalogia ci sarebbe molto da dire, ma quello del quarto film appare forse come il migliore, in quanto molto significativo pur mantenendo una certa intellegibilità: “C’era tre volte” è uno splendido riferimento alle fiabe classiche, che esistono in più versioni a seconda delle epoche e della sensibilità del momento del narratore. In 155 minuti abbiamo la summa del cinema del regista e, per certi versi, dell’animazione nipponica stessa: un mezzo comunicativo fortissimamente amato dal cineasta, che si è sentito in dovere di rappresentare e “salvare” a modo suo dal decorso e dalla corruzione degli ultimi lustri.
«Evangelion è ormai datato. Ma al contempo, negli ultimi dodici anni non ci sono stati anime più nuovi di Eva» è stata l’affermazione con cui Anno si è messo all’opera all’inizio del Rebuild, quindici anni fa, e a essere cinici potremmo dire che da allora la situazione è cambiata poco, a parte alcune eccezioni virtuose come Kill la Kill o Madoka Magica: per certi versi siamo addirittura tornati indietro, con shonen molto ben realizzati, magari, ma al contempo dall’impostazione fin troppo classica. E la cosa straordinaria è che per fare qualcosa di nuovo Khara dà fondo ai generi classicamente sfruttati negli anime, rifacendo a modo suo Space Battleship Yamato, Il mio amico Totoro e i tokusatsu (e non solo)… tutti nella stessa opera. Un vero e proprio “Progetto per il Perfezionamento degli anime”, parafrasando il piano segreto alla base di Evangelion, un amalgama di stili e generi decostruiti nella loro essenza e al servizio di una storia che trova uno svolgimento sontuoso e una risoluzione pressoché perfetta. Ogni cosa, difatti, è al suo posto. La colonna sonora non è preponderante come in passato ma colpisce durissimo nei momenti opportuni; gli fx sono esuberanti e sperimentali (e se qualcosa appare come strano o disturbante… be’, è un effetto voluto); la storia volge alla sua naturale conclusione, senza scorciatoie e mantenendo la sua complessità, ma dando qualche paletto in più allo spettatore per appigliarsi e arrivare a capire il finale senza troppi problemi, con un minimo di attenzione. Non si tratta di un finale all’americana, naturalmente: è tutto altamente simbolico, ma l’interpretazione, a differenza di The End Of, è piuttosto guidata e, in ogni caso, molto meno drammatica e fumosa dei precedenti epiloghi. Non siamo più nel regno della speranza o del tentativo disperato, quanto in quello dell’ottimismo: Anno per primo sembra convinto che il messaggio che cerca di instillare nel suo pubblico, questa volta, possa arrivare diretto, ma non più con l’effetto “calcio nel sedere” che ha caratterizzato gli altri ending, quanto con la delicatezza invitante di una bella ragazza che ti porge la mano. Neon Genesis Evangelion è finito, ma la vita di Shinji è appena cominciata.

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