C’era molta curiosità dopo l’ultimo festival di Cannes riguardo quest’edizione di Venezia. La manifestazione francese si è imbattuta in un’annata moscia e priva delle scoperte clamorose di cui è capace, addirittura i film migliori li ha mostrati fuori concorso (Mad Max e Inside Out) e nella competizione è riuscita a stupire solo con Saul Fia, il film ungherese clamoroso che ribalta come un calzino tutti i clichè del cinema da campo di concentramento. Si è sperato che tutto ciò che Cannes non era riuscita ad intercettare sarebbe naturalmente travasato a Venezia e anche dopo la conferenza stampa in cui sono stati presentati i film è stato evidente che non c’era stato il saccheggio da parte di Toronto (i due festival che quest’anno sono quasi contemporanei hanno molti film in comune ma questi sono passati tutti prima in Italia). Con queste ottime premesse abbiamo visto una prima parte di festival deludente, con molti titoli che non hanno per nulla stupito e solo il Fuori Concorso a valere il viaggio (Il caso spotlight, quando uscirà varrà la pena riparlarne, la meraviglia di In Jackson Heights e l’ultimo fantastico film di Caligari, Non essere cattivo, che è già in sala), ma anche una seconda parte decisamente più in forma.

È stata una buona Venezia alla fine dei conti, una che come promesso ha indugiato tantissimo sulle storie vere, su fatti reali portati in film, personaggi veri interpretati da attori e ricostruzioni storiche tra il plausibile e il grottesco, una mostra che ha illustrato le molte maniere in cui il cinema può raccontare la realtà, contaminandola di finzione o meno. Si va dal più classico degli stili romanzati di El Clan (però che fantastica presa di posizione Trapero, contemporaneamente vicino e lontano dai suoi criminali), alla metafora poetica di Behemoth (l’estrazione del carbone in Cina è una bestia primordiale che si ciba di pascoli in fiore), dal metodo giornalistico di Spotlight (in cui ciò che conta è l’onestà con la vera storia e la chiarezza) fino al teatro di Italian Gangster o alla patina da Oscar di The danish girl.
Anche se poi hanno vinto quasi solo film che non la realtà hanno poco a che vedere.

Cannes non se n’è accorta, o forse non gli interessa, ma la seconda gestione Barbera sta operando una transizione clamorosa per il vetusto mondo dei festival, cominciando ad inserire nella selezione film che una volta sarebbero stati al massimo fuori concorso o in generale non sarebbero stati considerati. Il primo fu Philomena, gioiello di cinema pop realizzato magistralmente che vinse la miglior sceneggiatura, e quest’anno era L’hermine, vero vincitore morale (miglior sceneggiatura e miglior attore). Si tratta di film “per il pubblico”, ancora peggio di “commedie”, che distruggono vecchi paletti di una cinefilia da mandare al macero e abbracciano lo statuto intellettuale, sofisticato, magistrale e mirabile di tanto cinema che definiamo commerciale ma che ha le medesime virtù di quello autoriale e in tanti casi lo supera (si veda il confronto con il pesante, retorico e arrugginito Francofonia di Sokurov, il prediletto della parte nostalgica della platea). Alla fine certo ha vinto From Afar, uno dei film meno entusiasmanti, ed è un peccato, il meglio lo si trova nei premi minori. Ma non si può sempre avere la premiazione che si desidera.

Intanto a deludere sono stati i colpi più grossi di questa mostra (per l’appunto The danish girl ma anche Black Mass e Everest) mentre hanno stupito i più piccoli. Ad ogni festival ci aspettiamo di essere sorpresi dai nomi che non conosciamo e dai film di cui non sappiamo nulla, da Venezia72 abbiamo scoperto lo straordinario Guan Hu di Mr. Six (in Occidente è pressochè sconosciuto, se arriverà in Italia sarà una festa), il genio di Zhao Liang di Behemoth, abbiamo capito che Emin Alper è un nome del cinema turco da tenere d’occhio (la storia di pazzia di Frenzy è un film d’autore con la goduria del cinema commerciale), sappiamo che Daniel Alfredson è pronto per il cinema americano e che quel film che da anni Charlie Kaufman ha preparato in sordina è il suo grandissimo ritorno.

Un’altra consapevolezza con cui usciamo da questo festival è che quel movimento che abbiamo inquadrato nettamente nel cinema italiano, quello dai centri abitati alle campagne, è presente anche nei film stranieri. Le storie di questo festival sono state quasi sempre storie di provincia, storie di campagna e quasi mai storie di città, urbane e traboccanti del costume odierno. In linea di massima sono state storie che si sarebbero potute svolgere in qualsiasi momento storico senza intaccarne la forza. La cosa in sè non è nè un bene nè un male, vale però la pena cominciare a chiedersi cosa sia quest’interesse morboso per la provincia e perchè il cinema si allontana dalle città, cosa trova in provincia che lì manca?

Infine gli italiani. A Cannes abbiamo calato tre assi con nessun risultato, qui invece avevamo i due “esclusi” (Bellocchio e Guadagnino a lungo erano stati tra i papabili per il festival francese) più due new entry. Su 4 sembra che uno solo abbia messo davvero d’accordo tutti. Mentre Guadagnino ha diviso e Bellocchio ha suscitato una stanca approvazione priva di entusiasmo, il film di Piero Messina, L’attesa, è stata un’opera prima di sconfortante banalità mentre Per Amor Vostro, all’ultimo giorno di concorso, ha rivelato uno stile kitsch popolare ma manipolato con grande raffinatezza che, da solo, è una ventata d’aria fresca, uno scampolo di postmoderno fuori tempo massimo anche nel nostro paese. Per fortuna Valeria Golino è stata premiata.

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

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