L’incontro con Stefano Sollima, regista di Adagio, presentato in concorso al Festival di Venezia

Gli esseri umani non sono mai solo bene e male, sono pieni di sfumature e mi piace nei film trovare sempre degli elementi spiazzanti la cui somma poi porta a costruire i personaggi. È un atteggiamento che mi viene naturale”.

È il cinema di Stefano Sollima in poche parole, spiegato dallo stesso Sollima, a Venezia, in una roundtable a margine della presentazione di Adagio. Un film in cui ancora una volta la sua tendenza a non giudicare e trovare bene e male in tutti crea quattro maledetti bastardi con lati tenerissimi, che uccidono tanto quanto carezzano. A modo loro.

“L’idea del racconto è proprio che criminali e tutori dell’ordine si comportano alla stessa maniera, non c’è il bene ma diverse declinazioni di male. È un mondo di vecchi avidi che si muovono solo per denaro e sono disposti a schiacciare ogni relazione, non hanno alcuna morale. A loro gli abbiamo contrapposto una generazione che con la sua fluidità, innocenza e purezza, per quanto possa sembrare svagata e fuori dal mondo, rappresenta il mondo di oggi più di noi”.

Per questo il protagonista è un ragazzo?

“Sì, ed è un mostro! Ha fatto il primo provino e recitava già come si vede nel film. Poi l’ho richiamato per vedere come interagiva con attori importanti, per capire come avrebbe subito il loro status, l’ho fatto provare con Favino e si è anche presentato in ritardo! Fin da subito manteneva la sua purezza, non si lasciava inquinare. Poi ancora abbiamo fatto una lettura con tutti gli altri e non si è smosso di un millimetro. Era chiaramente perfetto”.

Come vedi questo film all’interno della tua filmografia?

“È il mio film più sentimentale e intimo, un noir con una forte componente emotiva. Diciamo la mia versione di un film intimista. Mi hanno anche preso in giro i produttori quando gliel’ho detto perché già dalla sceneggiatura con tutto quello che brucia e salta in aria non sembrava proprio il tipico film intimo. Certo lo sfondo è la situazione criminale ma al centro ci sono rapporti umani, c’è il rapporto padre/figlio, c’è un momento ed è forse quello determinante nel racconto, in cui tutto passa per un rapporto che è semplicemente umano che non è dettato dal denaro. Abbiamo proprio provato a declinare le varie forme possibili di amore paterno e filiale: c’è un uomo d’azione senza scrupoli che però si occupa dei bambini e dei figli come una mamma chioccia; un padre che voleva che il figlio fosse come lui; uno che l’ha perso e via dicendo”.

Sei tornato a filmare Roma. Che tipo di lavoro volevi fare sulla città?

“Ho provato a fare due cose su Roma: rappresentare la parte meno vista, quella delle strade e  viabilità, come potresti raccontare Los Angeles, una città in cui la gente si muove; rappresentarla come piena di elementi distopici come incendi e blackout dandogli una funziona narrativa”.

Impossibile non notare il collegamento con Romanzo criminale… 

“Non è proprio collegato ma ho un po’ ho chiuso quel cerchio. Perché racconta la fine di quell’era. Se Romanzo era la partenza, questa è la fine dopo c’è il nulla”.

Hai notati cambiamenti nel cinema dopo aver fatto due film a Hollywood?

“L’unica differenza è che a Hollywood i film nascono da un presupposto diverso dal nostro: nascono da una necessità industriale, quindi se vuoi economica. E anche quando partono invece da un’ispirazione devono comunque fare un percorso spesso faticoso per adattarsi all’esigenza industriale. Lì ragioni sempre per un pubblico gigantesco, non fai un film per te ma non fai neanche un film per una ristretta cerchia, perché per definizione ha un costo che ti obbliga a rivolgerti a una platea gigantesca. Nessuno ti inibisce il lavoro sui sentimenti sia chiaro, ma cercano di rendere meno sofisticati alcuni passaggi. Istintivamente proprio. È comunque un pubblico immaginario il loro, cioè se lo devono figurare, e spesso per questo sì semplifica tutto immaginandolo male, io penso che il pubblico alla fine siamo noi. Gente sofisticata”.

SPECIALE FESTIVAL DI VENEZIA

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