Il regista iraniano Asghar Farhadi, diventato famoso in tutto l’Occidente con Una separazione (Orso d’oro a Berlino, Oscar per il miglior film straniero) e poi autore di film ricevuti molto bene come Un eroe e Il cliente oltre a quelli girati fuori dall’Iran (Il passato in Francia, Tutti lo sanno in Spagna), nel 2021 è stato accusato di plagio da una studentessa per il suo film Un eroe. L’accusa ha scatenato diversi procedimenti legali, l’ultimo dei quali ancora non è concluso. Nel raccontare la cosa il New Yorker ha realizzato un articolo molto ampio e lungo nel quale ricostruisce voci, accuse, personalità e testimonianze vicine a Farhadi (oltre alla voce di Farhadi stesso) che dipingono il quadro di come sia visto e considerato in patria e della quantità di persone che hanno delle rimostranze nei confronti del suo atteggiamento. Non è propriamente un pezzo di accusa (molto spazio è dato alle parole di Farhadi) ma sicuramente uno che dà voce a tutte le persone che specialmente in Iran non sono ascoltate perché la personalità, la fama e l’importanza del regista le schiacciano. Soprattutto è un articolo che si sofferma molto su come si siano sentite queste persone, sui loro sentimenti e quanto sì siano sentiti umiliati. Abbiamo ricostruito la storia cercando di lasciare tutta la parte sentimentale fuori dall’equazione.

L’antefatto

Tutto inizia nel 2014 quando Azadeh Masihzadeh partecipa ad un workshop di cinema al Karnameh Institute tenuto da Farhadi. Bisogna immaginare cosa possa essere in patria la statura di questo cineasta, regolarmente invitato a Cannes, capace di lavorare con le star mondiali e vincitore di due Oscar. Era un workshop ristretto da 18 studenti (e dal costo dell’equivalente di 1.400€)  al termine del quale era previsto che realizzassero un documentario. Fin dall’inizio il workshop verte su storie di persone che hanno trovato dei soldi e li hanno restituiti invece di tenerseli e come questi diventino nell’opinione pubblica degli eroi. Aveva portato anche lui stesso estratti da giornali che raccontavano varie storie di questo tipo, aveva diviso gli studenti in gruppi e gli aveva commissionato di indagare e documentare queste storie che a lui interessavano e voleva esplorare. Non ha mai detto che ci voleva fare un film ma sembra evidente che fosse una maniera di farsi aiutare nelle ricerche per Un eroe.

Masihzadeh ha lavorato da sola e non in gruppo, ha trovato le persone al centro della storia assegnatale, è andata nella città di Shirza, le ha incontrate, filmate, si è fatta autorizzare ad andare in prigione ad incontrare chi era in carcere e ha trovato anche una donna nelle campagne coinvolta. Il risultato era un classico di Farhadi, cioè un intreccio così complicato che era impossibile capire chi avesse ragione e come fossero andate le cose. Farhadi aveva detto agli studenti di fare il loro documentario, di lavorarci, che lui stesso ci avrebbe lavorato e che forse poi ci avrebbe fatto un suo film. Tutto abbastanza chiaro per quanto possano essere chiare le cose nel momento in cui un film non esiste né si sa se si farà. Una frase riportata è quella di Farhadi che dice che eventualmente lui potrebbe “scrivere una sceneggiatura basata su queste storie, una che viene dal cuore delle loro”.

Il tutto è durato 4 anni nei quali sembra che Farhadi abbia seguito ben poco gli studenti. Intanto il documentario di Masihzadeh All Winners All Losers è finito e vince un premio allo Shiraz Film Festival ed è nominato all’Iranian Film Festival. Qui inizia l’intreccio perché tramite sua moglie (e l’istituto che gestisce) Farhadi chiede alla ragazza di smettere di far girare il documentario, lei chiede se Farhadi metterà il suo nome nei credits del film, le viene detto di sì e così acconsente. 

un eroe farhadi

La produzione di Un eroe

Siamo nel 2019 e Farhadi incontra di nuovo Masihzadeh in un altro suo workshop (stavolta di scrittura) a cui lei partecipa. La riconosce e si interessa a lei. La fa convocare nell’ufficio del direttore dell’istituto presso il quale si tiene il workshop, le spiega di stare lavorando al film che sarà Un eroe, ambientato a Shiraz. Le chiede se ci vuole recitare ma la ragazza non è interessata, semmai farebbe volentieri la location scout per lui. Arriva allora un foglio da firmare in cui lei dichiarerebbe che il suo documentario è basato sull’idea fornita da Farhadi nel workshop. Quello che Masihzadeh racconta è di un brutto clima in cui le domande di lei su cosa stesse accadendo erano accolte con freddezza ed evasione, si sentiva pressata a firmare e non le era spiegato se il film che stava facendo fosse ispirato alla storia del documentario e che quello era “solo un accordo tra di noi”. Il giorno dopo Masihzadeh avrebbe precisato a voce a Farhadi che l’idea del documentario era tutta sua e lui avrebbe risposto “Ok”, lei avrebbe chiesto di rivedere il foglio che aveva firmato e lui avrebbe risposto che “questo ti serva da lezione, un giorno mi ringrazierai, la prossima volta che qualcuno ti chiede di firmare qualcosa devi contattare un avvocato”.

Un anno dopo cominciano le riprese di Un eroe a Shiraz e Masihzadeh non è stata contattata. Si reca in loco ma non le fanno incontrare il regista, chiede allora ad un amico che aveva frequentato con lei quel workshop e che lavorava nella troupe se fosse la stessa storia del suo documentario ma lui (che ha negato questa conversazione al giornalista del New Yorker) le disse di non ricordare il suo documentario e di non avere letto la sceneggiatura del film a cui sta lavorando.

Quando il film ha la sua premiere a Cannes comincia ad essere chiaro a Masihzadeh quanto la storia somigli a quella del suo documentario. A quel punto quello che le interessa, spiega Masihzadeh, sono le scuse dal regista. Minacciando azioni legali le viene consentito di incontrare Farhadi più volte, ad un certo punto di questi incontri le vengono anche offerti l’equivalente di 1.600€ come contributo al film e di essere inserita nei credits come parte del team di ricerca. Tuttavia gli incontri sono faticosi per Masihzadeh e le pressioni intorno a lei, vista la statura di lui, sono tali che la portano a rifiutare quest’offerta che inizialmente avrebbe pure accettato, perchè a quel punto si sente umiliata, non si sente una ricercatrice per un altro film ma la regista del suo documentario, creato da lei, e vuole che nei titoli di Un eroe sia riconosciuto che il film è ispirato al suo documentario. La cosa viene rifiutata da Farhadi viste le differenze tra i due film. Masihzadeh viene più volte accusata di voler infangare un film che porta alta la bandiera dell’Iran all’estero.

Anche il protagonista del documentario di Masihzadeh, una volta visto Un eroe grazie ad un permesso speciale dal carcere da lei ottenuto, conferma che quella è la sua storia, inclusa la presenza di suo fratello, disabile, che nel film diventa un bambino affetto da balbuzie. Come accade spesso nell’articolo del New Yorker, le lamentele per l’atteggiamento sprezzante di Farhadi sono lungamente raccontate e anche il protagonista della vera storia, carcerato, sostiene di essere stato deluso dal fatto che Farhadi non abbia mai parlato con lui né sia mai andato a trovarlo in prigione.

farhadi un eroe bambino

La guerra legale

Nel novembre del 2021 Farhadi e Masihzadeh si fanno causa a vicenda e in più Shokri (il carcerato protagonista della vera storia) fa causa a Farhadi per diffamazione e rivelazione di di informazioni e segreti personali, perché avendo avuto accesso al materiale del documentario (in cui la disabilità del fratello è nascosta) ha diffuso informazioni che lui aveva chiesto non fossero diffuse. E poi ancora Farhadi intenta una seconda causa a Masihzadeh per diffamazione, accusandola di aver detto in giro che lui l’avrebbe obbligata a firmare un documento.

Il tribunale ha visionato tutta la registrazione audiovisiva del workshop del 2014 e a marzo di quest’anno non avendo modo di recuperare gli articoli di giornale sulla storia filmata da Masihzadeh conclude che non si tratta di qualcosa che era di dominio pubblico e dunque archivia le accuse di Farhadi e Shokri ma dà ragione a Masihzadeh: Un eroe si basa sul suo documentario, passando il procedimento ad una corte penale. Qui comincia il linciaggio di Masihzadeh accusata di essere un’opportunista se non proprio una spia e i il produttore che le aveva finanziato un corto si ritira per via dell’aria che tira intorno a lei. Al contrario Farhadi viene chiamato in giuria a Cannes quell’anno.

Quando viene il momento del processo penale la difesa di Farhadi controbatte punto per punto sulle similiarità tra i due film spiegando il perché e dividendo quei dettagli di trama in “notizie” (cose che erano di pubblico dominio), “convenzioni” (cose che avvengono di solito nei film) e “ispirazioni” (cioè dettagli che si somigliano perché lui ha istruito i suoi studenti su come lavorare e quindi di certo non può avergli rubato quello che gli ha insegnato). Al momento non è stato ancora raggiunto un verdetto.

un eroe

La versione di Asghar Farhadi

Innanzitutto la dichiarazione che fu chiesto a Masihzadeh di firmare secondo il regista è una pratica normale tesa proprio ad evitare pettegolezzi e dicerie che sono l’abitudine nel mondo del cinema iraniano, inoltre voleva che fosse certificato chi avesse avuto l’idea originaria. Inoltre lui descrive il clima della situazione come molto amichevole, dice che quel documento era una semplice lettera, nulla di che, ma che visto quel che è successo dopo ora ha tutto un altro valore. Nega poi di averle detto che “così avrebbe imparato a non firmare nulla senza un avvocato” il giorno successivo. Inoltre a Cannes, in un’intervista alla BBC, Farhadi avrebbe specificato che il film viene dalle ricerche commissionate a degli studenti durante un workshop, e che lui avrebbe integrato parti di tutte quelle storie. 

Nella sua visione della storia, molte delle testimonianze rese al giornalista sono informazioni sbagliate e cose non vere. Ha spiegato che lui ha fornito ad ogni studente un seme, questi hanno piantato quel seme assecondando le sue istruzioni su come farlo, dove e quando. Poi anni dopo una tra quegli studenti l’avrebbe visto con un frutto in mano e l’avrebbe accusato di averglielo rubato “ma quello è il mio albero”, dice lui. Inoltre ha anche sostenuto che avrebbe voluto inserire il nome di Masihzadeh’s nei credits del film ma non è stato fatto per un errore e ha chiesto scusa per questo ai suoi studenti. Ha dichiarato di capire il senso di appartenenza di una giovane regista per il proprio film, concludendo che come nei suoi film un piccolo errore dà origine ad una serie di conseguenze non intenzionali fino ad una crisi, e che sta prendendo appunti da questa storia e che forse un giorno ci farà un film.

Il clima intorno a Farhadi non è più sereno come era prima. Per la prima volta quest’anno ha fatto una dichiarazione pubblica contro il mondo del cinema iraniano che lo accusa da tempo di non prendere posizioni e di stare al tempo stesso dentro e fuori dal sistema, lo ha fatto su Instagram con una certa durezza 

Ad agosto il ministro della cultura ha annunciato che alcuni cineasti saranno banditi dal fare film in Iran e sembra che in quella lista possa esserci il nome di Farhadi per aver mostrato Un eroe al festival di Gerusalemme nonostante gli fosse stato proibito. Ad oggi Farhadi e la sua famiglia non vivono in Iran.

La storia delle accuse a Farhadi

L’articolo del New Yorker ricostruisce anche film per film come molto spesso Aghar Farhadi e il suo lavoro siano stati al centro di piccole controversie. C’è lo sceneggiatore Abbas Jahangirian che sostiene di aver parlato a Farhadi di una storia che aveva intenzione di scrivere, che avrebbe iniziato a svilupparla con lui ma che poi i lavori sì fossero interrotti e di aver visto anni dopo Dancing In The Dust, il primo film di Farhadi, riconoscendo la sua idea. Il regista avrebbe poi integrato il nome di Abbas Jahangirian nei credits ma non gli avrebbe mai riconosciuto compensazioni.

Similmente per il suo secondo film, Beautiful City, il regista Mani Haghighi sostiene di aver lavorato otto mesi allo sviluppo dell’idea (avuta da Farhadi), senza poi vedere il suo nome nei credits. La protagonista di About Elly sostiene di essere stata emarginata dal cast e dal regista durante la premiere del film a Berlino perché intorno a lei era scoppiata una controversia (si era tolta il velo il pubblico), e che Farhadi in privato le avrebbe chiesto di scrivere una lettera di scuse al leader supremo “per il suo bene”.

Negar Eskandarfar, produttrice di Una separazione, sostiene che Farhadi avrebbe firmato senza il suo consenso un contratto di distribuzione internazionale per il film, nonostante non potesse farlo, e che gli abbia chiesto di non bloccare la cosa per il bene del film (che aveva già ottenuto la nomination all’Oscar per il Miglior film straniero). A questa accusa Farhadi risponde che in realtà Negar Eskandarfar non aveva effettivamente versato il suo contributo da produttrice e lei sostiene che era una questione di ritardi nel trasferimento di denaro tra banche iraniane. Inoltre Mostafa Pourmohammadi, uno studente di Farhadi, sostiene che l’idea al centro di quel film venga da un corto da lui realizzato proprio in un corso di Farhadi.

il passato

Il passato, il film francese di Farhadi, sarebbe secondo Mani Haghighi un episodio della sua vita che Farhadi aveva detto di voler adattare in un film con lui stesso come protagonista, ma alla fine avrebbe deciso altrimenti (il film ha come attori Berenice Bejo e Tahar Rahim) e dichiarato (a film uscito) di essersi ispirato alle vicende di un amico senza specificarne il nome. E ancora in Tutti lo sanno Haghighi avrebbe lavorato al trattamento del film senza ricevere nessun riconoscimento, nemmeno economico (non c’era un contratto) se non essere nei ringraziamenti finali del film con Javier Bardem e Penelope Cruz.

Sono tutte queste storie che raccontano di un atteggiamento molto difensivo della propria creatività. Raccontano di un cineasta che assorbe dagli altri spunti e poi crea le ragnatele immense che sono i suoi film (che contengono molto più di quegli spunti) a partire da un metodo di lavoro molto particolare che lui stesso ci aveva raccontato. Sono poi storie di Iran, cioè di una mentalità diversa meno attaccata ai contratti e meno attaccata al concetto di copyright come lo intendiamo noi. Behrouz Afkhami, regista e politico irainiano, ha dichiarato infatti al New Yorker che il copyright è un concetto tutto occidentale: “Chiunque pensi di aver avuto un’idea che non è stata mai discussa prima, solitamente non ha letto molte storie”.

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