Il grande Lebowski è arrivato su Amazon Prime Video. Così siamo andati trovare un vecchio amico, lo stesso di sempre.

Tutto cambia. Cambiano le stagioni, le mode, gli amori. Col tempo si modificano le preferenze, si cambiano gli amici e le proprie convinzioni. Il Drugo no, lui non cambia. Resta se stesso, impassibile e coerente nella sua zona di comfort. I Coen l’hanno scritto dentro a un film scomodandolo un po’. Gli serviva che fosse lui, e che fosse così, per ragioni narrative. Per sbaglio hanno inventato una religione.

Il grande Lebowski è un film da sentir dentro più che da comprendere. È una commedia situazionale tanto semplice quanto incasinatissima che va letta a partire dal suo protagonista: il Drugo, “un uomo del suo tempo”. Jeffery Lebowski, per chi non lo conosce. Un ex hippy pacifista con un passato misterioso, probabilmente trascorso interamente a perfezionare una rigida routine di vita lenta. Il mondo gli entra in casa, lo infastidisce un po’ e lo trascina con sé in un delirante girovagare rimbalzandosi tra individui simbolo di un’America frantumata.

Ricevuto con freddezza dalla critica del 1998, Il grande Lebowski e ad oggi uno dei più grandi esempi di come le commedie possano essere sovversive su due livelli. Il primo è quello dello sberleffo comico. Il secondo risiede nella struttura stessa con cui si fa intrattenimento. In questo, i Coen, sono stati con il loro Lebowski degli agenti del caos. Perché alla fine del film non si sa ben dire cosa si sia visto, ma di sicuro non lo si è mai visto, né prima né dopo. 

Qual è il punto de Il grande Lebowski? 

Il cinema occidentale è ossessionato dal cambiamento. C’è un inizio, una parte centrale, una fine. Nell’arco di questi tre checkpoint narrativi i personaggi devono fare delle esperienze che li portano a capire qualcosa, a risolversi altre cose, infine a cambiare. È questa la struttura base, la più logica, di ogni racconto. Quella che ci fa emozionare e dà un senso di appagamento e di completezza all’opera. Solitamente il protagonista si individua proprio a partire dalla quantità di cambiamento che gli è dato. Di fatto se vediamo qualcuno modificarsi (fisicamente e intellettualmente) ci sentiamo cambiati un po’ anche noi. Così empatizziamo con i personaggi.

I fratelli Cohen, con Il grande Lebowski, si ribellano questa idea. Fanno l’opposto dei manuali di sceneggiatura. Creano cioè un individuo che non vuole proprio cambiare e riesce perfettamente nel suo intento. Fermo, immobile, non ha nulla da insegnare a nessuno alla fine, non sa bene nemmeno lui che morale tirare fuori. Restando se stesso il Drugo compie l’incredibile: cambia tutto intorno a sé, cambia il nostro punto di vista.

Il grande Lebowski

Succede che un giorno gli entrano in casa dei malintenzionati. Dopo una breve, ma necessaria colluttazione urinano sul tappeto di Jeffrey Lebowski, stupendosi che non sembri ricco come gli era stato detto dal mandante. È un grossolano errore, uno scambio di persona. Drugo, molto serenamente, desidera solo bilanciare la perdita del tappeto; si reca così dall’omonimo e ben più facoltoso “grande Lebowski” per essere ripagato del danno. Torna a casa con un tappeto nuovo. 

Il film, se dovessi deciderlo il personaggio, finirebbe qui. Tutto risolto. Equilibrio ristabilito.

Tutto il resto de Il grande Lebowski

Lebowski è un antieroe per una società americana che non racconta così i suoi eroi. Li descrive più come il suo amico Walter Sobchak racconta se stesso: un eroe di guerra muscolare che sa il fatto suo. Jeffery non ha invece nemmeno un briciolo di malvagità (se non quella -discutibile- di non sopportare gli Eagles). È un ex hippy, svogliato, ubriacone che non insegue nessun sogno se non quello di un buon White Russian. È un personaggio al contrario. Altro che american dream e Born to be Wild, l’avventura continua ad arrivargli comodamente casa. Lui, un po’ tra l’ infastidito e l’annoiato, si limita a rifiutarla quando possibile. 

Tutto quello che segue l’ottenimento del nuovo tappeto si può interpretare così: come un film che non doveva esserci e che il suo personaggio non vuole nemmeno fare, ma che bussa in tutta la sua delirante eccentricità alla porta.

Oltre il primo atto, c’è infatti un’ondata di trama ad intreccio che però non serve ad una progressione narrativa classica. Il film è come il Drugo: vive alla giornata, situazione dopo situazione, girando in tondo per diletto.

Persino il mistero della scomparsa di Bunny, moglie del Lebowski ricco, ad un certo punto diventa totalmente irrilevante e si risolve letteralmente sullo sfondo. Il film si disgrega e si riaggrega continuamente sotto i nostri occhi, l’unica trama che rimane costante e quella del torneo di bowling ma anche quella, alla fine, non sapremo mai come andrà finire.

Il grande Lebowski

Il peregrinare di Lebowski senza mai cambiare lo rende una costante a cui ci si può ancorare mentre i Coen fotografano tante facce della società americana. Il capitalismo è impersonato da un uomo enorme, potentissimo, eppure fisicamente debole, quindi mai minaccioso al di fuori delle parole. Ci sono gli esilaranti nichilisti, le donne oggetto che si dimostreranno però molto più in controllo di quanto gli uomini credevano. 

Poi c’è Walter, il vero protagonista nascosto. Lui sì che cambia – di poco – piangendo la morte di Donny e chiedendo per la prima volta scusa per le sue assurde e rigide convinzioni. Walter è l’America vera, reazionaria e violentissima, arrabbiata, ma fiera dei suoi saldi valori. Fondamentalmente è un aggressore.

Stessa storia, stesso posto, stesso bowling

Si ritorna sempre lì. Al bowling dove chiacchierare con gli amici tra una partita e l’altra. Dentro c’è un microcosmo autosufficiente di esaltati, persone comuni e disperati. Ci sono narratori esterni, figure misteriose che tirano le fila, e ancora c’è il sesso e la religione (l’oscena pulizia della palla da bowling di Jesus). Ogni giorno sempre uguale, ogni giorno un po’ diverso.

Anche come film Il grande Lebowski si vive alla giornata. La decisione di costruire la trama per generare situazioni (invece del contrario) gli permette di cambiare sotto gli occhi ad ogni nuova visione. Si nota sempre qualcosa di diverso, si rimane colpiti da scene che non si sentono mai come la volta prima. Abbiamo indossato gli occhiali da spettatore del Drugo, che trova il differente nell’ordinario.

C’è da perdere la parole nell’elencare tutto quello che si può elogiare. Le interpretazioni, la fotografia, le musiche scelte con T. Bone Burnett come consulente musicale, i dialoghi devastanti, i dialoghi esilaranti, i dialoghi sovrapposti senza venire mai al punto. Tutto è stato assorbito, imitato, amato dal cinema successivo.

Quello che non si riesce a ricreare è il coraggio del Drugo. La sua rivoluzione è proprio di non voler cambiare nulla e nessuno, men che meno se stesso. Ammaccato, scosso, forse con un figlio in arrivo, Jeffrey Lebowski alla fine è ancora quello di prima. L’unico e inimitabile. Il solo. 

Non vuole cambiare? Non deve cambiare!

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