Quando a Venezia arriva il giorno di Freaks Out Gabriele Mainetti si è svegliato molto presto. L’appuntamento è alle 8.30 per l’intervista e quando arriva ha già fatto colazione ed è passato per il trucco (per le interviste televisive). Il film sarà proiettato per la prima volta a un pubblico alle 19.00, per tutto il giorno farà interviste, poi ci sarà la conferenza stampa e poi finalmente la proiezione.

Dopo il giorno in cui il film esce in sala (28 ottobre) questo è il più importante perché arrivano le prime recensioni (sempre alle 19) e i primi responsi. Inizia finalmente la vita di un film preparato per 5 anni e tenuto in frigorifero per un altro anno a causa della pandemia. Un film in cui Gabriele Mainetti, dopo essersi giocato tutto con un esordio largamente autoprodotto (Lo chiamavano Jeeg Robot), è andato di nuovo all in con tutti i soldi guadagnati con quel film, co-producendo questo che è 10 volte più grande.

È questo lo scenario in cui gli abbiamo parlato.

Vi avvertiamo che nell’intervista che segue ci sono spoiler molto moderati del film.

Mi ha stupito tantissimo l’incredibile armonia tra i toni diversi che sei riuscito a creare in Freaks Out…

Credo di averla assorbito da ragazzino. Penso a mio padre, ossessivo e compulsivo come me, che mi ha fatto vedere 007, Indiana Jones, I soliti ignoti e i film di Spielberg in continuazione. Erano i momenti più belli tra noi due. Lui stava poco a casa, era una persona molto impegnata, specie in quegli anni che erano per lui un periodo faticoso. Stasera vedrà il film per la prima volta e spero che viva di nuovo quel tipo di evasione che vivevamo insieme. Come Indiana Jones e l’ultima crociata magari, che per lui è proprio il massimo per via del rapporto padre/figlio tra Connery e Ford. È quell’intelligenza e quella profondità di racconto che mi colpisce e mi ispirano, il momento in cui Indiana sta per afferrare il Graal e il padre lo chiama per la prima volta “Indiana”, a quel punto non gli interessa più la vita eterna e la verità ma il fatto che il padre lo abbia riconosciuto per quello che è. Il suo Graal l’ha trovato. Guarda! Guarda! Ho la pelle d’oca solo a dirlo [è vero, ce l’ha ndr]. È un’idea geniale di scrittura e di amore, c’è tutto il bisogno di Spielberg di pace con il suo di padre. Queste sono le cose che a me piacciono: parlare a tutti e creare un livello multistrato il più profondo possibile.

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Anche in Freaks Out è pieno di padri cercati dai personaggi, figure che vogliono compiacere o da cui desiderano essere curati.

Parte tutto dal fatto che Nicola ha perso suo padre, io poi ci ho messo dentro il tema della diversità e dell’identità. Ma è un po’ come se tutto passasse per lo stesso canale. Il genitore e l’identità personale. I freak senza Israel si rivolgono al circo di Franz per avere qualcuno che li accolga. Matilde invece, la protagonista, è la più coraggiosa ma anche lei ha bisogno di trovare l’uomo che le ha fatto da padre, perché teme che altrimenti non saprà contenere il suo potere. Troverà invece il Gobbo, un padre diverso che la sprona e la spinge ad uscire fuori. Solo così Matilde potrà conquistare la propria identità, entrare nell’età adulta, accettare di essere diventata una donna. E infine Franz pure è un freak ha grandi possibilità, ma ha scelto il padre surrogato sbagliato da compiacere, Hitler, perché cresciuto con quell’ideologia malata di essere umano omologato, così si mutila taglia le dita e si veste come il fratello, diventa un’altra persona, si nega.

E infine ci sei tu.

Io dovevo maturare il fatto che mi basto e non devo accontentare nessuno. Poi certo l’evasione e il divertimento ma i temi che ci muovono sono questi. Non volevo le botte e l’esercizio di stile, i pupazzi di gomma che si sballottano in un quadrato verde, e dall’altra parte del resto non volevo solo il dramma. Io volevo il grande divertimento!

C’erano mille vie possibili ma avete scelto quella di un film gigante con un’ambizione fuori scala per il cinema italiano.

Io al cinema pretendo di emozionarmi. Ma non la lacrima eh, perché le cose che mi fanno piangere sono anche le telenovelas e non è che se piango allora mi è piaciuta, ma emozionarmi, guardare qualcosa che non avevo visto, passare 2 ore senza accorgermene, pensare di restituire al mio pubblico quell’esperienza che ho avuto con il cinema con cui sono cresciuto, quello degli anni ‘80.

Freaks Out infatti gli somiglia ma poi dentro è tutto storto…

Una volta a Santa Barbara ho sentito Tarantino dire che lui lo sa come si scrive una sceneggiatura perfetta e la potrebbe fare ma non la vuole fare, perché tutte quelle imperfezioni “sono io che sgomito per uscire dalla struttura e dal protocollo per dirti chi sono”. Ecco magari finisci a sbagliare ma quella stortura dà al film un’identità diversa. Pensa a Jeeg, c’è quel prolasso centrale della storia d’amore che secondo i canoni della scrittura classica è sbagliato. Quando Enzo gira la ruota lo Zingaro dovrebbe stare lì a vederlo e quindi far partire subito la trama ma noi ci siamo presi più tempo. Anche qui c’è un monologo di un guercio che sarebbe sbagliato a voler rispettare le buone regole. Sono sporcature che rendono tutto originale.

 

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Tutto originale e diverso dalla sceneggiatura perfetta però con un budget milionario. Bel coraggio!

Questo film si chiama Freaks Out perché pensavamo che si potesse fare solo in inglese, visto il costo. Volevamo la co-produzione internazionale, non pensavamo alla realtà italiana perché guardando i numeri del cinema di genere sapevamo che non ci saremmo rientrati. Immaginavamo un budget di 20 milioni. Poi con Andrea Occhipinti abbiamo deciso di farlo in italiano e io gli ho detto: “No, io non lo faccio in italiano, io lo faccio in romano e in calabrese, un film nostro. E non pensare che se lo portiamo in Italia cambierà, sarà più bello, sarà pure meglio ma costerà tantissimo lo stesso”. Alla fine che io sappia abbiamo speso 12 milioni e 900mila euro ma ho sentito Del Brocco dire 14 milioni, probabilmente ci sono dei costi che non sapevo. Ed è niente questo budget per il production value che abbiamo messo.

Come ci siete riusciti?

L’abbiamo fatto lavorando alla Jeeg. Ti faccio un esempio. In un film la troupe è grande e quindi ha un costo davvero importante. Quando lavori con una troupe li paghi tutti sempre per tutto il tempo, eravamo quasi 70/80 stavolta, quando invece un film medio sta sulle 40/50 persone di troupe. Il costo era di 75.000 euro al giorno. Non potendo andare avanti a queste cifre abbiamo cominciato a convocare le persone a giornata, cioè chiamando ogni giorno solo quelli che servivano. Li pagavamo di più per giornata, chiaramente, ma alla fine abbiamo risparmiato molto. In questo senso è un miracolo produttivo e ci siamo riusciti.

Questa è una origin story di una banda di eroi. Nei film americani prima diventano eroi e poi nella seconda parte vivono l’avventura da tali. Qui invece l’avventura è proprio diventare degli eroi, quando lo diventano il film è finito. Come per Jeeg. È quello che ti interessa? La formazione di uno statuto mitico?

Io e Nicola andavamo a studiare da Leo Benvenuti che ha scritto da Amici miei a C’era una volta in America, siamo figli della cultura di Age e Scarpelli, che racconta l’italiano in modo onesto. I supereroi americani, a parte quando li tratta James Gunn, sono pupazzi di gomma che rimbalzano in un rettangolo senza farsi male. I nostri sono vigliacchi, meschini, bugiardi e falsi. Ma poi questi che poteri hanno? Sono poteri ridicoli. Siamo noi che in un percorso forse di crescita individuale capiamo che la parte migliore di noi stessi è entrare profondamente in relazione con l’altro e aiutarlo. Quello è l’eroismo. In questo siamo diversi noi italiani.

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