Il nostro commento alla premiazione a tutta l’edizione 2024 del Festival di Cannes

E così da oggi Selena Gomez può esporre in casa una Palma d’Oro per la miglior interpretazione femminile. È l’esito più inaspettato di un’edizione del Festival di Cannes che, per la prima volta da quando nel 2017 è partito il movimento MeToo e il processo di revisione della posizione e del ruolo delle donne nell’industria e nei film ha subito un’accelerata, è stata dominata dalle donne seriamente e non pretestuosamente.

Questa che è appena finita è stata la prima edizione in cui la spinta da parte dell’organizzazione per mettere al centro le donne è stata una forza minoritaria e invece sono stati i film migliori (e alcuni dei peggiori), per prima cosa, ad avere al centro le donne e in particolare il corpo femminile, guardato in tantissimi modi diversi. Che poi è ciò che un festival, a livello ideale, dovrebbe offrire: una molteplicità di sguardi su una materia di attualità. E il corpo femminile è un terreno di negoziazione di significati potentissimo dei nostri anni. C’è voluto un po’ ma siamo arrivati finalmente a un’edizione in cui, a distanza, i film ne hanno dibattuto.

All’inizio del festival, prima di vedere i film, dicevamo che a giudicare dalla selezione, cioè sulla carta, sembrava un’edizione scarica e sottotono. Non è stato così. Anzi. È stata una delle poche edizioni di Cannes in cui i film pessimi, quelli che si fatica a comprendere come possano essere finiti nella competizione, erano pochi (forse solo The Girl With The Needle), la maggior parte è stata buona e abbiamo visto alcuni film giganteschi. Che tutto questo sia arrivato in un’annata che sulla carta sembrava non eccezionale, quindi da cineasti che non sono tutti già nella fase “maestro”, è ancora più una gioia.

Almeno 9 film (Wild Diamond, The Girl With The Needle, Parthenope, The Substance, All We Imagine As Light, Emilia Perez, Anora, Marcello Mio, Motel Destino) sono stati degli studi sui corpi delle donne, alcuni più didascalici di altri (Wild Diamonds e il suo corpo finto in una vita finta), alcuni sovversivi (The Substance, che associa al corpo nudo di Margaret Qualley il senso di ribrezzo per i liquidi corporei), alcuni empowering (Anora, che al corpo nudo di Mikey Madison associa una potenza che va oltre tutto), alcuni tradizionali (Parthenope, in cui il corpo di Celeste Della Porta è ammirato per la sua bellezza) e altri che rivedono completamente tutto quello che pensiamo su certi corpi (Emilia Perez e il suo boss del narcotraffico transessuale).

Parthenope by Paolo Sorrentino_from left Celeste Dalla Porta, Daniele Rienzo and Dario Aita_photo by Gianni Fiorito

Questi e molti altri film della selezione, saranno alcuni di quelli che domineranno la prossima annata, che faranno più parlare e che giocheranno le partite più importanti per diventare un pezzo della storia del cinema. E per la prima volta da tanto tempo c’è una Palma d’Oro che non farà cattiva pubblicità ai festival. Anora è un film che ha un lato commerciale potentissimo, una commedia dal ritmo indemoniato e dall’humor devastante. Contemporaneamente è anche un film che per molti spettatori sarà una totale novità. Non lo è in assoluto, chi segue il cinema di ricerca più da vicino noterà come metta insieme con eccezionale equilibrio moltissimi cambiamenti del linguaggio visti al cinema negli ultimi decenni, dalla maniera metropolitana di filmare che lo stesso Baker aveva sperimentato in Tangerine, alla frenesia del racconto dei Safdie, fino al personaggio osservatore, la spugna di sentimenti che sembra esterna alla storia e non ci aspettiamo possa avere una centralità, come in alcuni film di Xavier Dolan.

E sarà una bella pubblicità per il festival anche Emilia Perez, forse il film più sovversivo di tutta l’edizione e quindi dell’annata. Con due premi e un capitale di attenzione da sfruttare, Audiard prende la vecchia idea del cinema di mescolare i generi e quella un po’ meno vecchia ma comunque digerita, di usare trame e idee da B movie per fare film di serie A, e gira una storia impensabile trasformandola in un film di sentimenti reali, che mette insieme sia il suo cinema dei passati impossibili da rimuovere con il primo vero studio acuto della transizione sessuale. Reale e sentito proprio perché dietro allegoria. Un film che di colpo spazza via tutto il cinema underground giocando sul suo stesso terreno, ma con le armi (e le capacità) del cinema di serie A.

emilia perez

Infine, nonostante ci sia da dispiacersi per un premio marginale, ci sarà The Seed Of The Sacred Fig, il film di Mohammad Rasoulof, che fa politica con temi molto semplici e diretti, all’interno del consueto, mostruoso cinema iraniano. Sceneggiatura con un meccanismo inesorabile, personaggi scritti e interpretati benissimo e un ritmo che non viene mai dall’azione ma dallo sciogliersi degli eventi. Si pensava potesse essere una palma d’oro scontata (e giusta) e invece no. Ma di certo sarà un film che avrà una bella annata di fronte a sé.

Dopo diversi anni deludenti, il festival di Cannes, forse anche grazie alle buone prestazioni agli Oscar dei film non americani selezionati nelle passate annate, ha ritrovato una capacità attrattiva per i film con più possibilità e soprattutto per il cinema americano o più in generale in lingua inglese (quest’anno ogni giorno tra concorso e fuori concorso ce n’era uno che si faceva notare). Questo almeno in selezione ufficiale. Poco o niente invece sembra essersi fatto notare nella Semaine de la Critique e nella Quinzaine des Cinéastes, che non sembrano trovare pace, forma e quadratura. La seconda, in particolare, dopo la fine della stellare gestione di Edouard Waintrop (2012-2018), ha avuto una gestione peggiore dell’altra. Ne ha beneficiato la sezione Un Certain Regard che ora è quella in cui si trovano esordi o film più interessanti tra quelli che non hanno (sulla carta) attrattiva sufficiente per il concorso, ma è chiaro che il festival ha bisogno di una Quinzaine forte.

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